Sulla destra un bosco dagli anfratti cupi, alberi alti che fanno immaginare una foresta, sulla sinistra una montagna incombente di sassi: uno di questi è sollevato in alto da funi tenute strette da due uomini a terra in tuta bianca e cappuccio. Il masso piomba a terra colpendo il terzo uomo al controllo della rischiosa operazione. Cigolio di bicicletta, pedalando, allegra, entra un’adulta in corta gonna rossa che impersona una bambina.

QUADRETTO già intriso di sottile crudeltà che dà il via a Kind (Figlio), terzo titolo in ordine di creazione, che chiude la trilogia sulla famiglia ideata dalla compagnia belga Peeping Tom. A fondare il gruppo nel 2000 sono Gabriela Carrizo, argentina, e Franck Chartier, francese, alle spalle un bagaglio di esperienze segnate da un comune incontro chiave con Alain Platel.
Kind (Figlio) è firmato a quattro mani da Carrizo e Chartier: il debutto nazionale ha inaugurato il Festival Aperto a Reggio Emilia, replica alle Fonderie Limone di Moncalieri, dove lo abbiamo visto, per Torinodanza Festival, manifestazione che ha ospitato anche gli altri titoli della trilogia, Moeder (Madre) l’altro ieri, Vader (Padre) stasera (in Italia anche al Teatro della Corte di Genova l’8 e il 9).

«KIND (FIGLIO)» parte dall’idea di raccontare le cose dalla prospettiva dell’infanzia, senza proteggersi da interrogativi scomodi. Un esempio dichiarato: come organizzano i bambini il loro mondo attraverso la fantasia per padroneggiare determinate situazioni o dinamiche? Lo sceneggiatura scritta da Carrizo e Cartier tra danza e teatro ha un timbro cinematografico, potrebbe piacere ai fratelli Coen: mischia acidità e follia, violenza e tenerezza, frullando paure, orrori e speranze in una storia agìta da personaggi formidabili: c’è il padre pazzo armato di fucile che insegna alla bambina a sparare su un cadavere per vederlo saltare di qui e di là come al tirassegno, c’è la madre grintosissima che si rotola tra alberi con il padre mentre la figlia grassottella cerca amore inutilmente tra i due corpi, ci sono poi gli sprovveduti, una deliziosa famigliola che osa fare camping in questo bosco degli orrori.

Ma ci sono anche affondi a piene mani nella mitologia, con personaggi come la donna cieca che vaticina in cima alla montagna, corpi dal volto biforme, in mezzo a una natura piena di pericoli che uccide, colpisce, freme partorendo dalle radici di un albero sradicato dalla donna cieca il feticcio ligneo una bambola/figlio.

L’ADULTA / bambina, il cui occhio svagato e diretto è il filtro inquieto di tutto lo spettacolo, è una strepitosa Euridike De Beul, soprano leggero nonché altra artista militante in più di uno spettacolo di Platel. Uccide per imitazione come fosse un gioco, allatta la bambola di legno, si fa una ragione di alcune insidiose carezze adulte, supera tutto, basta avere la bici. C’è da restare attoniti, rabbrividiti. Con addosso quell’urlo finale: «Mi chiamo Euridike!», un grido di vita contro morti reali e fittizie, violenze e miserabili mancanze.