Nasce da un’idea di Jean-Claude Carrière, che l’avrebbe poi sviluppata in sceneggiatura insieme a Louis Garrel, La crociata, il nuovo film che il regista francese ha realizzato sorprendendo per la «deviazione» compiuta rispetto alle sue opere precedenti, per l’adesione alla commedia contaminata con la favola, per la leggerezza e l’umorismo con cui ha raccontato, dalla parte dei bambini, un argomento centrale nelle nostre vite come quello dei cambiamenti climatici e di come affrontarli. «Non avevo l’ambizione di far cambiare le coscienze, ma di fare un film nella posizione giusta, e che facesse ridere. Dopo, più segretamente, spero che ciò colpisca la generazione dei quindicenni-ventenni, che quei ragazzi si dicano che il film parla della loro realtà, della loro epoca, delle loro preoccupazioni», afferma Garrel.

TUTTO COMINCIA, è la scena d’apertura de La crociata, con una coppia, Abel e Marianne (ovvero lo stesso Garrel e Laetitia Casta, che sono una coppia anche nella vita privata), che scopre che il figlio tredicenne Joseph (Joseph Engel, già nel precedente film del regista L’uomo fedele del 2018) ha venduto non solo il suo monopattino ma, di nascosto, molti oggetti preziosi dei genitori per finanziare un progetto misterioso che coinvolge una moltitudine di ragazzi sparsi nel mondo. La camera a mano segue quanto accade restituendo l’ansia e il turbamento degli adulti di fronte a quell’inatteso stato di cose, i dialoghi serrati tra madre, padre e figlio che si spostano da una stanza all’altra «catalogando» gli oggetti mancanti. Che serve possedere tante cose se poi non si usano, se sono solo segno di accumulazione, se non si nota neppure che sono sparite da tempo? «Li ho venduti quattro mesi fa e non ve ne siete accorti!», dice loro Joseph. Garrel non usa preamboli e scaraventa subito lo spettatore nel cuore della situazione. La missione dei ragazzi è salvare un pianeta che sta sempre peggio e farlo senza l’aiuto degli adulti, chiusi nei loro egoismi, circondati di oggetti inutili, disillusi. I ragazzi si radunano in un bosco dove hanno costruito una mappa dell’Africa, il loro obiettivo è spostare un mare nel Sahara, creare un mare interno, hanno già contattato ministeri e istituzioni, sono pronti ad agire per trasformare l’utopia in realtà.

GARREL filma il loro entusiasmo, la loro energia, gli stereotipi nei quali sono confinate le forze del potere (la retata della polizia nel bosco pensando che si tratti di un giro di pedofilia), ma anche i primi innamoramenti, la tenerezza fra coetanei, gli sguardi razzisti che al commissariato si posano su chi ha la pelle scura, l’angoscia per la diffusione di polveri sottili che svuota le strade, costringe a stare chiusi in casa, andare in giro indossando una mascherina (la scena è stata pensata prima del Covid).
Nel suo terzo lungometraggio da regista (ma in tutti e tre è pure attore e i suoi personaggi si chiamano sempre Abel, a indicare un percorso di continuità e di cinema «familiare» rivendicato dallo stesso autore), Garrel, in un film che dura poco più di un’ora, si rivolge tanto ai più giovani quanto alle generazioni precedenti e consegna infine l’utopia, l’adesione al progetto, a una donna, alla madre di Joseph, che si recherà in Africa e diventerà la loro «portavoce». Durante un’escursione nel deserto, Marianne, con gli altri turisti e la guida, vedrà «sorgere» il mare. Una figura femminile e l’acqua, come nel finale di un film di Marco Ferreri. Un’illusione, un miraggio. In cui credere. Garrel è esplicito: «Il finale è un miraggio, un miraggio di cinema a significare che il film stesso crede al progetto utopistico».