L’opinione pubblica occidentale guarda allibita alle immagini che giungono dagli Stati Uniti, e non sa spiegarsele: tutt’al più le esorcizza, sottolineando gli aspetti pittoreschi, se non farseschi, dell’assedio al Campidoglio. Eppure il carnevale – ammesso e non concesso che di un carnevale si sia trattato, considerati gli aspetti pienamente eversivi dell’assalto al parlamento Usa – ha questa funzione nelle nostre società, di inscenare il vero attraverso la maschera. Ed il vero è che assistiamo da anni al venir meno delle premesse e delle promesse di prosperità e progresso sulle quali era stato rifondato l’ordine liberal-borghese dopo la fine della guerra fredda.

LA SBORNIA da “fine della storia” ci aveva fatto dimenticare quanto intrinsecamente fragili si possano rivelare le istituzioni liberali, e che la crisi è un aspetto intrinseco, sempre latente e spesso manifesto, di queste istituzioni, fin dal loro sorgere.
Gli unici che non se ne accorgono, per paradosso, sono gli ideologi del liberalismo, che infatti quando la crisi si produce devono sempre far ricorso a metafore miranti a presentare la crisi come qualcosa di momentaneo, di aleatorio, di portato dall’esterno: “gli iksos”, “la parentesi” ecc. Ma se guardiamo spassionatamente alla storia, ci accorgiamo che sarebbe più giusto mettere tra parentesi i periodi di relativa stabilità, rispetto alla normalità rappresentata da quelli critici.

In Francia, dove tutto nacque, il liberalismo non fece in tempo ad affermarsi, sulle ali dei magnifici principi dell’89, che già la prima Comune di Parigi lo aveva travolto nel ’92, facendo intravedere cosa sarebbe successo di lì in avanti a chi avesse preso troppo sul serio le premesse rivoluzionarie. Da lì in poi si innescò un tumultuoso processo culminato sulle barricate del ’48, che sconquassarono l’intero continente proprio nel momento in cui esso si avviava in blocco sulla strada del liberalismo. Seguì una prima parentesi di stabilità, rotta però nel 1871 dalla seconda Comune, e di lì a poco da un susseguirsi meno appariscente e più molecolare di irruzione popolare nella politica, attraverso l’allargamento del suffragio e la diffusione del sindacalismo e del socialismo organizzati.

LA BELLE ÉPOQUE borghese di primo Novecento rappresentò solo un’altra breve parentesi, prima che lo scoppio della prima guerra mondiale scaraventasse l’Europa e il mondo intero in un trentennio di crisi economica, sociale ed istituzionale con esiti rivoluzionari, a cui le élites liberali non seppero opporre niente di meglio del fascismo. Giunse una terza parentesi di relativa stabilità nel trentennio successivo, anche se nessun liberale Ottocentesco avrebbe potuto riconoscere come suoi figli legittimi le istituzioni democratico-sociali nate in Europa dall’antifascismo e negli Stati Uniti dal New Deal (ed infatti appena possibile ci si accaniranno contro).

Comunque sia, considerata con gli occhi di oggi, quella “età dell’oro” colpisce soprattutto per la sua breve durata: a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 la tempesta perfetta contraddistinta da conflitto operaio, concorrenza internazionale e insubordinazione nel Terzo Mondo aveva già spalancato nuovamente le porte della crisi.
Il ripristino del liberalismo, nelle sue varianti “neo” e “ordo”, ha saputo assicurare una qualche forma di stabilità per i soli anni ’90: il millennio si è aperto con una crisi che ad esser generosi possiamo retrodatare al 2008, ma per molti aspetti al 2001, nella quale a distanza di un ventennio siamo ancora immersi.

Questo scenario di crisi endemica non può essere ridotto alla vecchia e turbolenta Europa. Il lavoro schiavistico e la frontiera aperta permisero alle élites liberali statunitensi di funzionare con maggiore tranquillità per gran parte dell’Ottocento, ma i nodi delle tensioni sociali vennero comunque al pettine ed il conflitto sociale, politico e razziale scoppiò oltre Atlantico con violenza inusitata.

GUARDANDO indietro a questa sommaria carrellata possiamo cercare di trarne una lezione, così come ha fatto Sandro Portelli commentando i fatti di Washington: le istituzioni democratiche si salvano, ed anzi prosperano, solo quando riescono a rompere le gabbie anguste del liberalismo ed affrontano le conseguenze del conflitto sociale e della partecipazione politica di massa non come un problema (secondo una visione che, a ben vedere, accomuna tutta l’ideologia liberale, da Croce agli ordoliberisti tedeschi degli anni ’20 ad Arendt, pur con le rispettive differenze), ma come un elemento di vitalità e di innovazione (secondo la lezione di Machiavelli).

Le istituzioni formali e materiali sulle quali si è retta la restaurazione neoliberale sono caratterizzate dall’impermeabilità al conflitto redistribuivo, chiuse alla questione sociale. Salvare la democrazia dalla loro crisi implica, ancora una volta, uno sforzo di inventiva per ripristinare una dialettica virtuosa tra conflitto e istituzioni.