L’11 marzo 2011 la centrale nucleare di Fukushima viene seriamente danneggiata da un terremoto di magnitudo 9.0 e da un successivo tsunami che mette fuori uso i generatori di corrente che alimentano i reattori dell’impianto provocandone il meltdown.

A causa dello tsunami quasi 16mila persone perdono la vita. Oltre duemila sono ancora disperse.

Pochi mesi dopo il governo ordina la chiusura di tutti i 54 reattori del paese e l’evacuazione di oltre 150mila persone nella zona della centrale e nomina una autorità nazionale incaricata di supervisionare le nuove regole di sicurezza degli impianti.

Intanto decine di migliaia di persone scendono nelle piazze di tutto il paese per chiedere la fine del nucleare. Non mancano le conseguenze politiche.

A fine 2012, il partito democratico che nel 2009 era riuscito a interrompere l’egemonia del partito liberaldemocratico durata dal dopoguerra, viene sconfitto alle elezioni. Shinzo Abe torna al governo e promette di riattivare le centrali del paese, anche a fronte di un deficit commerciale causato dall’aumento dell’import di combustibili fossili. Prima del marzo 2011, l’energia nucleare costituiva il 30 per cento dell’approvvigionamento energetico del Giappone. Ad agosto del 2015, dopo l’ok dell’autorità sugli standard nucleari, la centrale di Sendai, in Kyushu, viene riattivata.

È la fine del nucleare zero durato per quasi quattro anni.

Come ha ricordato Naoto Kan, capo del governo all’epoca dell’incidente, l’incidente di Fukushima ha rivelato che il “mito dell’energia nucleare sicura e economica si era trasformato in qualcosa di pericoloso e molto costoso”.