Durante il secondo mandato presidenziale dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad ci avevamo fatto l’abitudine, al braccio di ferro tra governo e parlamento. Con il moderato Hassan Rohani, è la prima volta. Ieri i deputati hanno chiesto al presidente di rendere conto dell’alta disoccupazione, della bassa crescita, della svalutazione del rial (da aprile ha perso la metà del valore), del contrabbando di beni e valuta straniera, nonché delle sanzioni bancarie in essere, nonostante l’Iran abbia rinunciato alla sovranità nucleare con l’accordo del luglio 2015.

Nella Repubblica islamica la crisi si fa sentire sempre più: il divario tra ceti sociali è sempre più ampio, nell’ultimo anno il prezzo dei latticini è cresciuto di un terzo, quello del pollame di oltre il 20% e la frutta fresca del 71%. Il parlamento, in cui i conservatori sono in maggioranza, ha posto cinque quesiti al presidente.

Ma quattro risposte non sono state del tutto soddisfacenti e per questo i deputati si sono lamentati con la magistratura, che a sua volta ha chiesto al parlamento di procedere con ulteriori indagini sull’operato del governo.

Tre osservazioni. La prima riguarda il sistema politico della Repubblica islamica: esiste una suddivisione dei poteri, non è un uomo solo a decidere anche se poi il leader supremo ha l’ultima parola.

Seconda osservazione: l’unica risposta soddisfacente di Rohani ha riguardato le sanzioni; non può essere biasimato se Trump ha lasciato in essere l’embargo alle banche (come aveva peraltro fatto il suo predecessore Barack Obama, proprio lui che aveva voluto l’accordo nucleare), si è ritirato dall’accordo firmato dal 5+1 e, a inizio agosto, ha dato avvio a un nuovo round di sanzioni.

L’attacco del parlamento a Rohani giunge dopo che i deputati avevano già preso di mira il ministro dell’Economia Massoud Karbassian, sfiduciato da 137 parlamentari (121 i contrari, due gli astenuti). E l’8 agosto era toccato ad Ali Rabiie, il ministro del Lavoro.

I conservatori accusano i moderati di non essere capaci di gestire la cosa pubblica. Difficile però che sia tutta colpa di questo governo, che da otto anni di Ahmadinejad ha ereditato una situazione economica allo sfacelo anche perché, per accattivarsi le simpatie dei ceti bassi, aveva deciso di erogare sussidi in contanti a un quarto della popolazione: 9 euro mensili per venti milioni di abitanti, esborso non indifferente.

La questione importante è però un’altra, e questa è la nostra terza osservazione: buona parte dell’economia resta nelle mani delle fondazioni religiose (le potenti Bonyad) e dei pasdaran che non presentano bilanci e non pagano tasse.

Lo sanno tutti, ma nessun uomo politico potrà mai affermare che il re è nudo, vorrebbe dire che, a 40 anni dalla sua creazione, il sistema creato dall’Imam Khomeini perde colpi. In Iran come nel resto della regione, incluse le monarchie sunnite del Golfo, il problema è che il settore pubblico gode di prerogative che lo rendono vincente.

È vero che gli stipendi sono bassi (prima di questa svalutazione del rial, il salario mensile di un ingegnere equivaleva a 500 euro), ma quell’accredito che arriva sempre è pur sempre appetibile per i migliori laureati: potendo scegliere, optano per un impiego pubblico anche perché il settore privato è asfittico, le sanzioni sono tornate e le imprese straniere se ne vanno. Anche un gigante come la francese Total che si era impegnata in un consorzio (con iraniani e cinesi) per sfruttare il giacimento di gas nel Golfo persico.

Il settore privato non è concorrenziale e non solo quando si tratta di attirare i migliori cervelli, rispetto a fondazioni e business gestiti dalle guardie rivoluzionarie, che non hanno controlli fiscali e non pagano dazi. In Iran l’unica riforma auspicabile è un ridimensionamento del settore pubblico a favore di quello privato, attraverso un pari trattamento delle imprese che fanno capo a fondazioni religiose e pasdaran.

In mancanza di queste riforme, nessun governo riuscirà a rilanciare l’economia e interpellare in parlamento un presidente sarà solo una farsa in cui non crede più nessuno.