Come mai non riusciamo a risolvere la crisi ecologica? E dire che avremmo tutti gli strumenti necessari per farlo. In nessun’altra epoca storica l’essere umano ha sviluppato una conoscenza tanto approfondita del mondo: sappiamo come funziona il clima, conosciamo i meccanismi che regolano gli ecosistemi, le dinamiche della società umana e possediamo molte delle tecnologie necessarie per compiere una transizione energetica. Eppure siamo praticamente sull’orlo dell’estinzione.

E SE FOSSE PROPRIO IL SISTEMA della democrazia rappresentativa elettorale ad essere inadatto a salvare il genere umano?
Un recente studio del Centre for the Future of Democracy dell’Università di Cambridge mostra che nel mondo la fiducia nella democrazia non è mai stata così bassa. Eppure che ci fossero dei problemi in questo modello lo si sapeva fin dal principio: come spiega David van Reybrouck in Contro le elezioni la democrazia rappresentativa elettorale è nata sotto la spinta della classe dirigente borghese ottocentesca per creare sì un sistema più stabile e pacifico rispetto alle bellicose monarchie, ma con l’obiettivo di mantenere il potere decisionale all’interno di una élite ristretta.

PUR CON I SUOI LIMITI, PER UN PO’ il sistema ha funzionato, poi qualcosa si è inceppato. Nelle moderne democrazie liberali dall’economia di stampo capitalista, il meccanismo democratico dovrebbe imporre vincoli al mercato che vietino, ad esempio, alle aziende di inquinare, o di consumare troppe risorse. Ma nella realtà avviene tutt’altro. I partiti si trovano a rincorrere, a fasi alterne, il consenso della popolazione o la legittimazione dei mercati: in tempi di crescita tendono a delegare ai mercati l’azione politica con l’assunto che questi ultimi, lasciati liberi, faranno crescere l’economia e quindi rafforzando il consenso dei partiti stessi.
Il meccanismo s’inceppa quando si instaurano cicli di recessione: qui le esigenze del «popolo e quelle dei mercati divergono e nascono i partiti populisti, che attaccano (demagogicamente) i mercati rivendicando la «volontà del popolo». Nasce così la distinzione fra partiti populisti e partiti di sistema, che più di ogni altra caratterizza il panorama politico contemporaneo. In nessuno dei due casi, tuttavia, l’obiettivo è quello di risolvere davvero i problemi. E la rincorsa del consenso, da mezzo, diventa il fine stesso della politica.

PER MOLTI PROBLEMI PERÒ, la soluzione non coincide con gli interessi dei mercati o con il consenso di un particolare bacino elettorale. È il caso della crisi ecologica. Succede quindi che chi propone soluzioni sensate non viene eletto, o che – ancora più spesso ormai – i partiti smettano di farle, sapendo che comporterebbero un calo dei consensi. Come si esce da questa impasse? All’inizio degli anni Novanta una cittadina del sud della Svezia, Växjö, fece un esperimento interessante. Per dare continuità alle politiche ambientali i principali partiti cittadini decisero di tirare fuori la questione ecologica dalla competizione elettorale e prendere su di essa decisioni condivise. Questa semplice mossa ha prodotto risultati stupefacenti e oggi Vaxjo è considerata una delle città più sostenibili d’Europa.

L’ESPERIMENTO DI VÄXJÖ SI BASA su un’ottima intuizione e tanto buon senso da parte di amministratori e cittadini. Oggi possiamo andare oltre. Cinquant’anni di ricerca accademica e sperimentazione empirica hanno portato all’elaborazione di modelli di governance in grado di affiancare, o persino sostituire in certi contesti, la democrazia rappresentativa elettorale. Vediamone due: la Democrazia deliberativa e la Sociocrazia 3.0.

La Democrazia deliberativa è un sistema che veniva già utilizzato nella Grecia antica ma che negli ultimi anni è stato molto perfezionato in ambito accademico. L’idea è di affidare le decisioni (o alcune decisioni) a gruppi di cittadini estratti a sorte o che partecipino su base volontaria, ma che siano rappresentativi dei vari punti di vista coinvolti nella decisione. Mettiamo che si vogliano decidere le sorti di un giardino pubblico: l’assemblea dovrà includere al suo interno elementi rappresentativi di tutti i punti di vista e i bisogni di coloro che hanno a che fare con il parco, l’amministrazione locale, gli anziani che ci vanno a passeggiare, le famiglie che portano i figli a giocare, i figli stessi, chi ci lavora, i ragazzi che ci escono la sera e i vicini che si lamentano per il troppo rumore. Non è importante che vengano rispettate le proporzioni quantitative ma che siano espresse tutte le istanze. Quindi si passa a fornire al gruppo l’accesso alle migliori informazioni disponibili. Infine si stimola la collaborazione interna – e non la competizione! – fra i vari punti di vista per giungere ad una decisione che sia buona per la comunità nel suo contesto e non per una parte di essa (logica tipica dei partiti).

LE ASSEMBLEE DELIBERATIVE POSSONO essere affiancate al sistema rappresentativo attuale, con funzione consultiva o decisionale. Esistono diversi esperimenti in tal senso. Nel Belgio germanofono, da settembre il parlamento regionale ha ceduto alcuni poteri a un’assemblea permanente composta da 24 cittadini estratti a sorte.

L’IRLANDA HA DA POCO ORGANIZZATO assemblee di cittadini per discutere dei matrimoni gay e dell’aborto; in entrambi i casi le proposte avanzate dai cittadini sono state ratificate in un referendum nazionale e hanno portato a un cambiamento costituzionale. In Australia Meridionale un’assemblea deliberativa ha aiutato a risolvere il problema dello stoccaggio di scorie nucleari, mentre a Madrid è stato recentemente istituito un osservatorio permanente di cittadini estratti a sorte.

SE LA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA è sufficientemente simile a quella rappresentativa da potervi essere affiancata, lo stesso discorso non vale quando passiamo a parlare della Sociocrazia 3.0 (S3). La S3 è l’evoluzione della Sociocrazia, detta anche governance dinamica: un modello nato per creare organizzazioni più agili e resilienti, capaci di prendere decisioni condivise e orizzontali senza rimanere bloccate in stati di impasse. È usata spesso, non è un caso, all’interno degli ecovillaggi, quelle comunità di persone che scelgono di vivere fuori dai centri urbani adottando stili di vita ecologici, laddove il problema di convivere pacificamente restando in grado di darsi delle regole diventa essenziale.

IN SOCIOCRAZIA NON ESISTE IL CONCETTO di maggioranza e minoranza, le idee e le proposte appartengono a tutti e l’intero gruppo lavora per migliorarle. Chiunque venga toccato dalle decisioni da prendere ha il diritto di partecipare al miglioramento di ogni decisione fino ad avere la facoltà di bloccarla se si presentano le ragioni per farlo. L’obiettivo è quello di prendere decisioni sufficientemente buone e abbastanza sicure da essere messa in pratica, con opportuni cicli di controllo successivi. Dato che nei gruppi gli aspetti emotivi e relazionali svolgono un ruolo chiave, in Sociocrazia si fa spesso uso della Comunicazione non violenta, una tecnica comunicativa che aiuta a stabilire relazioni empatiche. L’ultima evoluzione della Sociocrazia, la S3, ha sviluppato i concetti della Sociocrazia in una serie di pattern decisionali diversi, per coprire un’ampia gamma di situazioni differenti ed è in costante aggiornamento.

Più di recente, la S3 sta iniziando a diffondersi all’interno di aziende e amministrazioni. Il comune di Valsamoggia (BO) ha istituito un tavolo permanente in S3 sull’emergenza climatica, di cui fanno parte diversi consiglieri comunali (vedere intervista a fianco). Ad oggi l’unico vero limite di questo modello è rappresentato dalla scala di applicazione: si riescono a gestire processi di buona qualità fino a 500-1000 persone ma oltre inizia a perdere di efficacia. Per cui l’ipotesi di organizzare una metropoli o un intero Stato in S3 non ha molto senso. Al contrario potrebbe averne l’immaginare dei sistemi ibridi fra quest’ultima e la Democrazia deliberativa.