Il barometro segna di nuovo tempesta. L’opzione della conta in aula sembrava ormai fuori gioco. È riemersa invece ieri con massima forza, corroborata da un nuovo giro di telefonate da parte di chi, a palazzo Chigi, gioca col pallottoliere, conta e riconta i singoli voti, si attacca al telefono e pare che qualche risultato lo ottenga, martella anche il gruppo di Italia viva: «Davvero volete giocarvi tutto?».

Lo scoglio è sempre la diffidenza, del resto comprensibile, di Giuseppe Conte, che non vuole dimettersi potendo contare solo sulle promesse di Matteo Renzi come garanzia di ottenere il reincarico. La novità è che non si tratta più dell’unico ostacolo. Ora a puntare i piedi sono anche i 5 Stelle. Vito Crimi, e certo non solo lui, si è convinto che un Conte ter, nel quale il peso del premier diminuirebbe mentre quello di Renzi s’impennerebbe, non sia sostenibile per il Movimento. Passi il rimpasto, al quale in realtà mira anche Luigi Di Maio, ma nulla di più. Meglio la conta.

LE SPERANZE AUTORIZZATE da qualche timida schiarita si sono così quasi dissolte. Conte diffida, Renzi insiste. Nella notte tra lunedì e martedì taglia corto con i classici ambasciatori: «La crisi o la apre Conte o la apro io». Nessuno spazio per il rimpasto indolore su cui punta il presidente del consiglio: o anticipa dimettendosi lui oppure provvede Iv con le dimissioni delle ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova. A palazzo Chigi la tentazione del duello nell’arena parlamentare risale. Al mattino Renzi, di fronte ai retroscena che danno la situazione per quasi sbloccata in cambio di un paio di poltrone ministeriali, usa la e-news per mettere i puntini sulle i: «Noi siamo gli unici disponibili a lasciare le poltrone. Se non servono le nostre idee tenetevi anche le poltrone». E poi: «Magari il problema con Conte fosse personale. Invece è politico».

La trattativa a distanza prosegue per un po’. Dicono che Conte offra la disponibilità a dimettersi ma solo con impegno firmato da Renzi che gli assicuri il reincarico. Se la storia è vera, la risposta deve aver portato la diffidenza del premier alle stelle: «Prima le dimissioni, poi la lettera». La trattativa finisce sul binario morto, rientra in scena la sfida rusticana. Non è escluso, naturalmente, che anche questo passaggio rientri nel gioco di rilanci continui che prosegue da settimane. La conta in aula renderebbe una ricomposizione molto più difficile, avvicinerebbe quelle elezioni che nessuno vuole e Renzi meno di tutti. Ma nei giochi d’azzardo l’ex premier si trova a casa sua: fa sapere che ad arretrare non ci pensa per niente. «Io conosco le dinamiche parlamentari. Se Conte cade per lui non ci sono le elezioni ma il ritorno alle lezioni», ironizza parlando con gli intimi. E se invece il premier ce la fa per un soffio? Risposta ovvia: Italia viva all’opposizione senza alcun problema.

IL RUOLO DEL PD, nella vicenda, è sfuggente. Ieri lo stato maggiore ha fatto il punto al Nazareno e la linea maggioritaria, sostenuta con forza anche dal capo dei deputati Graziano Delrio, è che si difende Conte ma senza rinunciare a quel cambio di marcia che il segretario Nicola Zingaretti reclama invano da mesi. Significa che il Pd non mira a defenestrare Conte, ma, pur negandolo ufficialmente, vuole quel passaggio di crisi necessario per rivedere la struttura del governo e far entrare come vicepremier Andrea Orlando. Così tutti aspettano che qualcuno si decida a fare una mossa per sbloccare la situazione. Il pentastellato Crimi si attende un passo da parte di Renzi, nella speranza probabilmente vana che la minaccia di ordalia nell’aula di palazzo Madama spaventi e smuova il senatore di Rignano. Il Pd scalpita perché Conte si decida a convocare quel vertice dei leader che peraltro, nel clima di rinnovato scontro frontale, sarebbe già un successo se non finisse in rissa propriamente detta.

INTANTO LA LANCETTA corre. La bozza di Recovery Plan che avrebbe dovuto essere consegnata dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri a Conte ieri mattina in serata era ancora ferma al Mef: il problema è da dove sottrarre i fondi spostati sulle voci sanità, scuola e infrastrutture. La via maestra sarebbe prenderli dai 22 miliardi per il superbonus, ma chi glielo dice ai 5 Stelle? Probabilmente anche il consiglio dei ministri destinato a varare il Piano slitterà, ma non oltre l’inizio della prossima settimana. L’idea di Conte è evitare di mettere la bozza ai voti e passarla al parlamento, per impedire alle ministre di Iv di bocciarla e di dimettersi. Solo che non è una strategia. È un escamotage leguleio, che indica quale sia davvero il problema principale: per strutturare una «crisi pilotata» ci vogliono i piloti. Qui non si vedono neppure i mozzi.