L’attuale crisi economica è stata ed è continuamente oggetto delle più svariate attenzioni: politici ed economisti si affaccendano intorno alla questione per cercare di interpretarla e alleviarne, ove possibile, gli aspetti più disastrosi. Fra i molti cannocchiali critici puntati sull’argomento uno dei più interessanti è sicuramente quello del Gruppo Krisis, nato in Germania su iniziativa di Robert Kurz (successivamente separatosi dal Gruppo), Norbert Trenkle, Ernst Lohoff, Peter Klein ed altri, a cui si devono molti saggi apparsi nell’omonima rivista nonché il Manifesto contro il lavoro, uscito nel 1999 e tradotto in italiano per DeriveApprodi nel 2003.
È appena uscito un piccolo ma denso volumetto, a firma di due degli attuali esponenti del Gruppo, Norbert Trenkle e Ernst Lohoff, Terremoto nel mercato mondiale. Sulle cause profonde dell’attuale crisi finanziaria, a cura di Massimo Maggini, Mimesis, pp. 86, euro 5,90. Dopo una puntuale introduzione di Maggini che presenta gli autori e il loro pensiero al pubblico italiano, il libro ci offre un saggio di Trenkle e un’intervista in tre parti ai due autori (molti altri testi di Krisis sono rintracciabili anche online in traduzione italiana, sia nell’omonimo sito, sia in quello austriaco della rivista Streifzüge che nel ricco e ben curato blog «Ozio produttivo»).
Il pensiero del Gruppo Krisis risulta alquanto indigesto e inusuale per il panorama della sinistra italiana che, come scrive Maggini, «è tutto rivolto ad interpretare il crack capitalistico come una sorta di passaggio attraverso il quale il capitale affina/aggiorna le sue pratiche di sfruttamento e pone le basi per un’ulteriore e ancora più efficace fase di accumulazione».
Secondo i pensatori tedeschi (che rileggono Marx privilegiando soprattutto la sua riflessione sulla crisi capitalistica) non ci troviamo di fronte ad una crisi temporanea né ciclica, bensì ad una definitiva, generata dal meccanismo di accumulazione e dalla competizione fra capitalisti, i quali hanno come meta finale esclusivamente il profitto. La cosiddetta «economia reale», a causa di una iperproduttività tecnologica deterninata da quella che Krisis chiama la «rivoluzione microelettronica» (la terza rivoluzione industriale), non è più in grado di valorizzare e rendere redditizi i propri prodotti, espellendo forza-lavoro in gran quantità. La causa della crisi non va quindi imputata a «cattivi» banchieri o a speculatori finanziari ma al malfunzionamento di tutto un sistema, quello capitalistico, che sta per raggiungere i suoi limiti vitali.
Come leggiamo sia nel saggio di Trenkle che nell’intervista, dopo la rivoluzione microelettronica, il «capitale fittizio» è diventata la principale fonte di ricchezza capitalistica. «Fittizio», secondo Marx, è quel capitale creditizio e speculativo che si materializza sotto la forma di «titolo», di valore futuro: secondo i pensatori di Krisis, il sistema attuale si basa principalmente sull’aumento di capitale mediante la capitalizzazione anticipata di valore futuro.
L’utilizzo del capitale fittizio non fa altro che creare continui rinvii della crisi strutturale della riproduzione capitalistica. La politica, poi, non può certo fermare questo meccanismo di crisi, poiché non può toccare la logica funzionale del capitalismo; anzi, essa semmai contribuisce a portare le contraddizioni del processo di crisi a livelli più alti: «mentre la massa di capitale fittizio cresce in modo esponenziale – scrive Trenkle – aumenta, con ogni fase di rinvio della crisi, la pressione sulla società e sulla gran massa della popolazione, che si trova costretta a vendersi in condizioni sempre più precarie».
Come nota anche Anselm Jappe (un pensatore assai vicino alle idee di Krisis) in un saggio raccolto in un altro volumetto edito recentemente sempre da Mimesis col titolo Contro il denaro, di fronte alla crisi la politica non ridurrà le spese per le armi ma quelle per la salute, la cultura e l’educazione, poiché meno utili a poter servire come «motore per la crescita». E l’austerità ad ogni costo? Secondo Krisis è una follia: non è vero che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, la produttività è rimasta sempre a livelli elevati; è necessario fare buon uso delle forze produttive e collegare le lotte svincolandosi dalle esigenze di valorizzazione del capitale (come avvenga questo passaggio – nota il curatore – resta il «non detto» di questo pensiero).
Del resto, già nel 1883, nel suo pamphlet Il Diritto alla Pigrizia, Paul Lafargue scriveva che «quando l’uomo restringe il suo stomaco e la macchina allarga la sua produttività, proprio allora gli economisti ci vengono a predicare la teoria malthusiana, la religione dell’astinenza e il dogma del lavoro. Bisognerebbe strappargli la lingua e gettarla ai cani».