Il giornalismo d’inchiesta in cui eccelle Gian Antonio Stella è specializzato nella denuncia delle «caste». Una casta tira l’altra in una catena di complicità fino a formare un establishment auto-referenziato. La responsabilità maggiore l’ha la politica, che – connivente o impotente – non riesce a garantire il bene comune facendo le scelte giuste, sapendo che le risorse sono comunque scarse.

Valendosi della testimonianza dell’ambasciatore Antonio Armellini e della documentazione che gli ha fornito, Stella ha denunciato in un articolo sul Corriere della Sera dell’8 novembre lo sfacelo dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (Isiao).

Armellini ha svolto per anni le funzioni di commissario per la liquidazione coatta amministrativa di un ente pubblico o semipubblico passato attraverso un procedimento simile al fallimento o alla bancarotta di un’impresa privata. Sembra che tale liquidazione abbia costituito il primo caso del genere in Italia. Le difficoltà e le resistenze si sono moltiplicate e alla fine Armellini si è dimesso per sfinimento e frustrazione. L’ente di sorveglianza era il ministero degli Esteri, che aveva rapporti speciali con i due istituti unificati nell’Isiao dal 1995 con una legge voluta dalla stessa Farnesina: l’Istituto per gli studi del Medio ed Estremo Oriente (Ismeo) e l’Istituto italo-africano (ultima versione e denominazione dell’Istituto coloniale italiano, costituito all’inizio del Novecento).

Risalendo all’indietro nella loro genealogia, entrambi gli istituti erano il prodotto dell’espansione coloniale, di dominio o relazioni asimmetriche con qualche spruzzata di grandeur fascista. Nel dopoguerra venne avviata un’opera, non sempre ben digerita, di adattamento alla realtà post-coloniale. Prima i due istituti, separatamente, e poi l’istituto unificato avevano acquisito una certa risonanza in Italia e nella comunità internazionale degli studi e della documentazione.

A differenza delle altre potenze europee con un passato coloniale, l’Italia ha smobilitato gli apparati della conoscenza e della memoria di quel periodo della nostra storia. Istituti a pezzi e Il Museo coloniale sparito. Da noi, tutto ciò che la Seconda Repubblica ha saputo produrre è stato un sacrario in memoria di Rodolfo Graziani a Filettino.

D’altra parte, i due istituti avevano imboccato percorsi non propriamente coincidenti e i programmi dell’Isiao ne risentirono: l’Ismeo era specializzato in scavi archeologici e nell’insegnamento delle lingue e culture orientali, l’Istituto italo-africano era rivolto piuttosto all’attualità dell’Africa in via di decolonizzazione con qualche incursione nella cooperazione internazionale. L’unificazione risultò fortemente «sbilanciata»: gli asiatisti monopolizzarono (o quasi) la governance, concentrando in Asia gran parte del bilancio e avversando il «sinistrismo» della componente africanistica.

Una prima frattura – con il distacco di alcuni studiosi dagli organi di indirizzo culturale, di per sé dotati di scarsissimo potere – si verificò quando la presidenza rifiutò in extremis, dopo una lunga fase di (presunta) preparazione d’intesa con le autorità culturali di Addis Abeba, di organizzare, appunto a Roma a cura dell’Isiao, la XVI Conferenza internazionale di studi etiopici nel 2007.

Il brusco ritiro della candidatura da parte dell’Isiao con il pretesto dei costi mise in grave imbarazzo gli africanisti italiani. Il Congresso fu organizzato poi a Trondheim in Norvegia.

Nella ricostruzione di Stella è forte la tentazione di bacchettare una casta accademica che ha sperperato le risorse nella gestione dell’Isiao e una casta burocratico-ministeriale che prima ha assistito alla deriva senza esercitare i suoi doveri di gestione e controllo e poi non ha collaborato a trovare una soluzione meno drastica del fallimento, della sospensione di ogni attività e (chissà) di una chiusura definitiva. Intanto la biblioteca dell’Isiao, che fortunatamente è un bene protetto e non disponibile, è inagibile da anni e si sta via via impoverendo.

In realtà l’indubbia responsabilità dei protagonisti diretti non è la sola causa del disastro. Per anni i finanziamenti dello Stato sono stati elargiti in ritardo appesantendo il bilancio dell’Isiao con onerosissimi tassi bancari. La politica ha dimostrato nel caso migliore indifferenza e nel peggiore insipienza o, peggio, fastidio per questa forma insostituibile di soft power.

Uno dei luoghi comuni di cui – fra continue riforme dell’Università, riduzione dei fondi a disposizione della ricerca e cervellotiche cattedre e borse di studio ad personam – abusano i nostri governanti nei discorsi della domenica è il primato della cultura. Nella realtà dei fatti, oltre all’Isiao, altri Istituti italiani dedicati a studiare le realtà politiche e culturali degli «altri» sono praticamente spariti dalla scena. L’Istituto per le Relazioni fra l’Italia e i Paesi dell’Africa, America latina e Medio Oriente (Ipalmo), fondato nel 1971 e divenuto il centro di elaborazione e promozione del «terzomondismo» in Italia, ha di fatto interrotto la sua attività con una celebrazione dei quarant’anni di vita alla Camera dei Deputati voluta dal suo ultimo presidente, Gianni De Michelis.

Una parabola analoga è stata vissuta dall’Istituto italo-latino-americano (Iila): partito dalle geometrie razionaliste dell’Eur e approdato più tardi in un palazzo patrizio nel centro di Roma, si è dovuto ritirare in un appartamento ai Parioli. Sia la biblioteca dell’Ipalmo sia quella dell’Iila sono in via di estinzione.

A quanto si sa, anche le donazioni a università o a centri di ricerca non sono andate a buon fine a causa dei costi. Lo stesso Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) di Milano, che pure, al pari dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), tiene molto bene il campo sui temi caldi e caldissimi del sistema internazionale, è stato costretto a trasferire quasi tutte le proprie raccolte all’Università di Pavia, che sta doverosamente completando la catalogazione. Anche una fucina di riflessione, ricerca e dibattito come la Fondazione Basso attraversa una fase di precarietà per la solita carenze di risorse economiche, che, almeno in parte, spetterebbe allo Stato, e dunque alla politica, elargire.

Evocare le ambizioni internazionali dell’Italia e assistere (o contribuire) senza reagire al decadimento o addirittura alla scomparsa di più o meno antiche istituzioni per lo studio e l’insegnamento delle realtà politiche, sociali, economiche e culturali del mondo globalizzato è una contraddizione lampante di cui la politica, anche quel poco di sinistra che è rimasto, o non vede la gravità o non la capisce.