Nel deserto marocchino le ruspe del gruppo Ocp lavorano senza sosta: raccolgono sabbie ricche di fosfati con cui vengono realizzati gran parte dei fertilizzanti a base di fosforo del mondo. Con quasi 6 miliardi di dollari di fatturato e 23 mila dipendenti il Gruppo Ocp, di proprietà statale, è la maggiore azienda del Marocco: copre il 57% del mercato globale del fosforo per uso agricolo e rifornisce i maggiori paesi agricoli, Canada, Usa, Brasile, India.

IL FOSFORO E’ UNO DEGLI ELEMENTI più comunemente utilizzati per produrre fertilizzanti, assieme all’azoto e al potassio. Si estrae principalmente dalle rocce e dalle sabbie fosfatiche, che vengono trasportate e lavorate (utilizzando grosse quantità di acqua ed energia) fino ad ottenere il monoammonio e diammonio fosfato, ingredienti base di molti concimi. I rendimenti dell’agricoltura industriale si basano in buona parte sulla disponibilità di questo elemento. Le riserve di fosfati hanno due caratteristiche fondamentali: sono concentrate in pochissimi luoghi del mondo – il 70% in Marocco, il 20% in altri 4 paesi, solo il restante 10% nel resto del il mondo. La seconda è che stanno finendo.

NEI REPORT ANNUALI DEL OCP NON SI TROVANO molti riferimenti al fenomeno, ma è probabile che nel palazzo di vetro circondato da campi da golf che fa da quartier generale al gruppo, a Casablanca, qualcuno si stia interrogando su quali siano le reali prospettive dell’azienda. Mentre nelle sedi delle principali università e centri di ricerca del mondo in molti si interrogano su quali siano le prospettive del genere umano in relazione al rapido esaurimento dei fosfati.

IL FENOMENO E’ NOTO COME «PICCO DEL FOSFORO» o «picco dei fosfati» e se ne parla da diversi anni. I primi studi sull’argomento ipotizzavano che il picco, ovvero il momento di massima estrazione prima del declino, sarebbe giunto già attorno al 2010. Successivamente le stime sono state riviste al rialzo, ma non esiste certezza su quando avverrà il picco del fosforo. Attualmente gli studi più attendibili lo collocano fra il 2030 e il 2100, con l’ampio margine di incertezza dovuto a due fattori: le stime relative alle riserve e – soprattutto – le proiezioni legate ai consumi. Se per quanto riguarda le prime l’incertezza non è poi così ampia, visto che nell’ultimo decennio non sono stati scoperti nuovi giacimenti, sui consumi il delta si fa molto più grande. In Italia e in Europa la domanda di fosforo è diminuita negli ultimi 15 anni, ma nel resto del mondo ha continuato a crescere, trainata dalle economie emergenti di Cina e India, dalla crescita dei consumi di carne nei paesi in espansione economica (carne che ha un’impronta fosfatica 50 volte superiore alle verdure) e dall’utilizzo dei cosiddetti biocarburanti.

LA CRESCITA DELLA DOMANDA, a cui non corrisponde una crescita dell’offerta, ha fatto lievitare il prezzo, che è più che raddoppiato negli ultimi 15 anni. E il trend non sembra arrestarsi: se non si interverrà con politiche mirate la domanda di fertilizzanti al fosforo è destinata a raddoppiare entro il 2050, e con l’offerta che inizierà a declinare la filiera alimentare mondiale rischia di finire nel caos. Di fronte a questo quadro apocalittico, diverse istituzioni si sono mosse alla ricerca di soluzioni. Nel 2013 è nata la European Sustainable Phosphorus Platform (Espp), una piattaforma che riunisce una vasta gamma di attori europei lungo l’intera filiera del fosforo con lo scopo di trovare soluzioni condivise per una più efficiente gestione della risorsa.

E A DIRE IL VERO QUALCHE PASSO IN AVANTI è stato fatto. In Europa il consumo di fosforo in agricoltura è calato costantemente negli ultimi 15 anni, e diverse tecniche sono state affinate per recuperarlo. Roberto Canziani, professore di ingegneria sanitaria-ambientale del Politecnico di Milano, partecipa come esperto alla Piattaforma italiana del fosforo sul tema del recupero dei fosfati dalle acque reflue urbane. «Il fosforo che somministriamo alle piante – spiega – finisce nel nostro organismo, ma quest’ultimo ne trattiene molto poco. La maggior parte, fino all’80%, viene escreto e finisce nelle acque di rifiuto». Nel processo di depurazione di queste acque, più dell’80% del fosforo finisce nei fanghi, dai quali può essere in parte recuperato. «I fanghi potrebbero essere usati direttamente come fertilizzante in agricoltura, ma spesso sono contaminati da metaboliti di farmaci, tensioattivi e metalli pesanti. I fanghi non idonei all’utilizzo agricolo possono essere prima essiccati e poi bruciati in appositi forni inceneritori, dotati di impianti di depolverazione e lavaggio dei fumi – continua Canziani – fino ad ottenere delle ceneri, da cui è possibile ricavare sali di fosforo, utilizzabile come materia prima per fare i fertilizzanti».

LE TECNICHE DI RECUPERO DEL FOSFORO sono molto migliorate negli anni, pur mantenendo alcune criticità: ad esempio in alcuni casi le materie ottenute faticano a ritagliarsi un mercato; senza considerare possibili «effetti rebound» di una maggiore efficienza nell’utilizzo della materia prima. Tuttavia non risolvono alla radice il problema: possono allontanare il picco, ma l’esaurimento della risorsa resta inevitabile. Dunque dovremmo progettare una fuoriuscita dal fosforo? Sembra di sì. Tuttavia, pur necessaria e inevitabile, questa fuoriuscita non può che essere graduale. Buona parte dei terreni agricoli mondiali hanno ormai disponibilità di carbonio molto basse e si trovano in uno stato di pre desertificazione. Tradotto, sono diventati praticamente sterili e possono continuare a produrre cibo solo grazie all’apporto massiccio di fertilizzanti.

IL SUOLO E’ UNO DEGLI ECOSISTEMI PIU’ COMPLESSI e fragili, popolato da circa il 50% delle forme viventi conosciute. Per formare uno spessore di un centimetro di suolo la natura impiega cento anni. Per distruggerlo, basta meno. L’utilizzo di fertilizzanti privi di materia organica e molto salini, unito a pratiche invasive ancora molto utilizzate in agricoltura come l’aratura, il costante rivoltamento degli strati, l’irrigazione con acque saline, spezzano gli equilibri fragili del suolo, lo salinizzano ed eliminano la vita al suo interno. Le piante continuano a crescere e produrre solo perché vengono nutrite «artificialmente» – attraverso concimi minerali e/o di sintesi – con nutrienti che il suolo, da solo, non è più in grado di rendere disponibili alle radici. La maggior parte delle piante coltivate sono state selezionate per dare alte rese ma, per fare ciò, necessitano di grande apporto di sostanze minerali e di acqua.

SEBBENE SIA POSSIBILE RECUPERARE LA FERTILITA’ dei terreni attraverso tecniche come l’agricoltura organica e rigenerativa, i tempi di recupero sono spesso lunghi: per un recupero completo possono servire dai 5 ai 10 anni. Riepilogando, il fosforo inizia a scarseggiare nei suoi serbatoi naturali, mettendo a rischio tutta la filiera della produzione alimentare globale, mentre abbonda nei luoghi dove non dovrebbe trovarsi, come fiumi, laghi e mari, causando fenomeni disastrosi per gli ecosistemi. Non è un caso che il ciclo del fosforo – assieme a quello dell’azoto – sia uno dei processi maggiormente fuori controllo fra i nove Planetary Boundaries, i «legami» planetari individuati dai ricercatori del Resilience center di Stoccolma che dobbiamo tenere sotto controllo se vogliamo continuare ad abitare questo pianeta. Le soluzioni, al pari dei fosfati, scarseggiano. Una transizione verso un’agricoltura più sostenibile è urgente, ma i tempi di questa transizione sono incerti. Le tecniche di agricoltura rigenerativa possono accorciare i tempi di recupero della fertilità, ma un decennio è troppo quando c’è in gioco la filiera alimentare mondiale. Come per le altre crisi in corso, non riusciamo a prendere le decisioni necessarie.