Le sagome di cartone piazzate al posto del pubblico nella platea degli show televisivi restituiscono un’immagine piuttosto fedele dello stato in cui versa la società italiana. Gli spettatori che assistono in questi giorni alla crisi politica sembrano fatti della stessa materia inerte. Pubblico fittizio in sostituzione di una presenza reale. Non potrebbe essere più stridente il contrasto tra una società paralizzata, se non del tutto rassegnata, certo ferma nella muta attesa che «qualcosa cambi», chissà se in meglio o in peggio, e lo scomposto attivismo delle forze politiche in una frenetica girandola di azzardi, ipotesi, formule, ambizioni. Comunque vada a finire l’avventura governativa, questo spettacolo senza pubblico (neanche un ortaggio che voli dal loggione) accompagna verso la fase terminale la lunga agonia della rappresentanza.

A dire il vero qualche spettatore c’è, e anche molto attento. Siede a Bruxelles o nelle società di rating pronto a bocciare quella che sospetta essere l’ennesima replica della commedia all’italiana. Rispuntano le famigerate «riforme» (pensioni, fisco, pubblica amministrazione) richieste a chi beneficia dei fondi europei. Giacché la pandemia, pur finendo col mitigare pragmaticamente la rigidità della dottrina non ha certo cancellato l’impianto liberista delle politiche dell’Unione e il culto della competitività. Di metter mano ai trattati nessuno parla più. L’eclissi dei falchi non durerà a lungo.

Dunque, mentre partiti e parlamentari ballano sul filo di equilibri fortemente compromessi e inseguono la fata morgana di una stabilità che non è nell’ordine delle cose, il paese viene governato dalla «cabina di regia» che dispensa colori, permessi e divieti, che di fatto determina il flebile ritmo vitale di una società intubata. Senza l’obbligo di argomentare le sue scelte, di dimostrare la razionalità delle singole misure imposte, né di illustrarne chiaramente le conseguenze.

Per mesi la soglia di allerta era stata fissata a un certo livello dell’Rt, poi improvvisamente si abbassa. Troppo ottimismo prima, o troppo allarmismo poi? Da novembre viviamo come molti altri paesi europei in un inimmaginabile regime di coprifuoco (non previsto nemmeno durante la prima ondata dell’epidemia) a cui tutti sembrano essersi inspiegabilmente assuefatti.

Ha influito sulla curva dei contagi? A guardare i numeri non si direbbe. Anche se, come sono soliti argomentare i fanatici del liberismo, si può sempre sostenere che i guai derivino dal non aver applicato la ricetta con sufficiente rigore. Affermazione che mette fine a ogni discussione possibile. E poi, in fondo, non è forse un «gregge» quello che deve essere condotto all’immunità? E alle pecore il pastore non deve troppe spiegazioni. Tant’è che la logorrea mediatica dei virologi e degli epidemiologi sembra essersi sopita. C’è poi già qualche luminare di bioetica che evoca senza vergognarsene il «paternalismo responsabile» come auspicabile indirizzo di governo.

Di fatto il paese è già affidato a un «governo tecnico» della pandemia al quale altri tecnici presto si affiancheranno nell’adeguare programmi e spese alle procedure e ai criteri stabiliti dall’Unione europea e sui quali ai governi nazionali non saranno concessi grandi margini di manovra. All’ «avvocato del popolo», come del resto accade a tutti i difensori degli squattrinati, non resterà allora che affidarsi alla clemenza della corte. Le qualità retoriche per farlo senza troppo sfigurare non gli mancano.

Intanto le pie illusioni sulla solidarietà indotta dal «mal comune» cadono una dietro l’altra. Sulla fornitura dei vaccini la competizione è feroce e l’industria farmaceutica, ovviamente immune da qualsiasi inclinazione umanitaria, rifornisce tempestivamente, business as usual, quelli che pagano di più e più celermente. E il governo italiano, tanto per offrirci un assaggio di come intenderà ripartire le risorse sulle quali peraltro non ha ancora messo mano, si rivolge per il suo piano di vaccinazioni di massa ai negrieri delle agenzie interinali che propongono al personale sanitario, precario ieri come oggi, condizioni di miserabile servitù. L’emergenza piuttosto che suggerire un cambio di rotta riproduce la norma dello sfruttamento più estremo. Le reazioni latitano, tra frustrazione e rabbia repressa.

Con la sola importante eccezione del mondo della scuola che, nel confino domestico della Dad, si riscopre elemento decisivo del fare società piuttosto che fabbrica di diplomi o processo di adeguamento alla sempre più insondabile «domanda delle imprese», come l’hanno voluta decenni di riformatori aziendalisti.