È una strada che si può tornare a percorrere, a ritroso, per comprendere come si sia potuti giungere fin qui e, forse, per capire se sarà possibile imboccarne una del tutto diversa in un futuro prossimo o nel tempo a venire. Il percorso che ha condotto Donald Trump alla Casa Bianca non si è aperto quattro anni fa ma ha attraversato l’ultimo mezzo secolo di storia americana, costruendo progressivamente le condizioni che hanno infine reso possibile quell’esito apparentemente imprevedibile. Si tratta di una vicenda che si è cominciato a scrivere a Detroit, come nelle altre grandi città industriali degli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni Settanta. È qui, nelle cosiddette shrinking cities, vale a dire i maggiori centri manifatturieri del Paese che hanno assistito via via al proprio «restringimento» sotto la spinta convergente della deindustrializzazione e del crollo demografico, che si è giocata una battaglia sociale decisiva che ha visto la sconfitta della classe lavoratrice e il debutto di una nuova dottrina politico-economica che ha assunto il nome di neoliberismo.

SE NEI DECENNI che avevano fatto seguito alla Grande Depressione, prima con il New Deal e quindi con le conquiste ottenute dal movimento sindacale e dai molti movimenti per i diritti che avevano riempito le strade della nazione, l’America aveva vissuto «la fase più egualitaria della propria storia», da quel momento in poi l’ago della bilancia avrebbe continuato a spostarsi a favore di una ristretta minoranza di ricchi, mentre una parte sempre più significativa della popolazione intraprendeva un viaggio a tappe verso l’inferno, vedendo peggiorare anno dopo anno le proprie condizioni economiche e sociali. Questo fino alla crisi innescata dalla finanza nel 2008 e alla pandemia degli ultimi mesi che hanno reso ancor più grave e drammatica la situazione.
È a partire da un vasto affresco che intreccia l’analisi economica e sociale con le sue traduzioni sul terreno della politica e degli assetti istituzionali che uno dei maggiori storici italiani degli Stati Uniti, Bruno Cartosio ricostruisce il contesto nel quale ha preso forma «la discesa in campo» e la successiva affermazione elettorale di Trump. In Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano (DeriveApprodi, pp. 218, euro 18) Cartosio propone un’indagine dentro il presente che si innesta su un lavoro di lungo corso sulle contraddizioni della democrazia e del sistema sociale americani. Proponendo implicitamente ulteriori spunti di riflessione che interrogano quanto sta accadendo in queste ore oltre-Atlantico e il significato della campagna per le presidenziali apertasi in tale contesto.

IL PUNTO D’ARRIVO della ricerca è sintetizzato dall’autore stesso in una ormai celebre frase di Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo, che solo nel 2011 ammetteva che «c’è stata una guerra di classe negli ultimi vent’anni (e) i ricchi hanno vinto». Se si tiene conto del fatto che al vertice della piramide sociale mondiale ci sono oggi 26 «super ricchi» e che di questi ben 15 sono statunitensi, si può facilmente capire cosa sia accaduto negli ultimi decenni nel Paese.
Le disuguaglianze sociali, arrivate al minimo storico tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70, hanno ricominciato ad aumentare a tal punto dagli anni 80 – Ronald Reagan, alfiere delle politiche neoliberali si insediò alla Casa Bianca nel gennaio del 1981 -, che ora «sono più profonde che a fine 800». Al punto che oggi il 10% più ricco della popolazione statunitense detiene il 77,1% della ricchezza contro il 22,8% che è appannaggio del restante 90%: la gran parte dei cittadini.

RESO ANCORA più opprimente dagli esiti della crisi del 2008, lo scenario è perciò quello di un Paese dove milioni di lavoratori poveri fanno i conti con la sopravvivenza e dove il numero dei suicidi e il consumo di droghe «domestiche» si è quasi decuplicato nello spazio di pochi anni. «L’impressionante arricchimento dei ricchi a fronte della precarizzazione delle vite degli appartenenti alle classi lavoratrici e dell’impoverimento della cosiddetta classe media hanno prodotto una crescita abnorme delle disuguaglianze sociali e cancellato molte certezze su presente e il futuro di singoli e famiglie. E l’insicurezza prolungata ha prodotto a sua volta estraniamento, isolamento e disperazione», scrive Cartosio. Ed è in questo contesto che i vincitori della «guerra di classe al contrario» che ha scandito lo sviluppo della globalizzazione neoliberale hanno risposto «ai disagi sociali e agli spasmi politico-culturali di cui sono i maggiori responsabili chiamando a mobilitazioni sciovinistiche contro supposte minacce e nemici “esterni” e con virate politiche a destra, regressive e repressive».

IN QUESTO ORIZZONTE ha fatto la sua comparsa il tycoon newyorkese Donald Trump che è stato in grado di sfruttare la crisi di un sistema democratico già sfibrato dal ruolo determinante che vi giocano i potentati economici, dallo scarso profilo del suo ceto dirigente – nell’ultimo mezzo secolo i Repubblicani hanno eletto 6 presidenti, contro 3 democratici, tra i più discussi della storia del Paese: da Nixon a Reagan fino ai due esponenti della dinastia Bush, padre e figlio -, e infine dall’evidente deficit quanto alle stesse «regole» del gioco: proprio Trump ha vinto malgrado abbia ricevuto quasi 3 milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton, mentre alcuni milioni di afroamericani ed ex detenuti sono stati sistematicamente esclusi dal voto «attraverso la manipolazione delle liste elettorali» operata dalla destra.
Se il contesto nel quale ha preso forma la sua candidatura è stato quello di un Paese attraversato da una profonda inquietudine sociale, accanto al voto «dei benestanti e dei ricchi» Trump ha però saputo soprattutto conquistare quello di una larga fetta dei «maschi bianchi», intimoriti all’idea di perdere, al di là della loro appartenenza sociale, il privilegio derivante dal proprio status di genere e di «razza». Sono poi riemerse, anche al di là del ruolo importante che sembrano aver giocato nella sua elezione la strategia delle fake news di Steve Bannon e l’attivismo sui nuovi media dell’area della alt-right, la nuova destra radicale a vocazione mainstream, alcune caratteristiche di sempre della società americana, come l’anti-intellettualismo descritto fin dagli anni 60 da Richard Hofstadter che aveva parlato della capacità tutta americana di trasformare «l’odio in una specie di credo». E proprio Trump avrebbe giocato apertamente la «carta dell’odio»: dapprima quella del pregiudizio razziale anti-nero nei confronti di Obama, quindi quella «dei risentimenti di genere, di casta e di classe» nei confronti di Hillary Clinton.

EMERSO IN VIRTÙ delle fratture che attraversano la società statunitense, il «fenomeno Trump» se ne è fino ad oggi nutrito, puntando tutto sull’estrema polarizzazione del dibattito politico, «pro» o «contro» la presidenza. In questo modo, «l’arrogante demagogia di Trump – sottolinea Cartosio, con un’espressione valida per interpretare anche quando sta accadendo ora per le strade d’America – ha fatto da innesco, da addensante per mobilitazioni di donne, minoranze, lavoratori, giovani le cui ragioni erano in gran parte preesistenti» e critiche nei confronti della crisi della democrazia americana in atto già molto prima del suo arrivo alla Casa Bianca. Movimenti che potrebbero però decidere nei prossimi mesi anche del suo futuro politico come di quello dell’intero Paese.

 

SCAFFALI USA

«Il diritto di opporsi» di Bryan Stevenson

Noto avvocato afroamericano, Bryan Stevenson è il fondatore della Equal Justice Initiative, organizzazione no profit che combatte l’incarcerazione di massa e l’ingiustizia razziale ed economica che colpisce in particolare la comunità nera. In Il diritto di opporsi (Fazi, pp. 400, euro 16, traduzione di Michele Zurlo) racconta uno dei primi casi di cui si è occupato: quello di Walter McMillian, un giovane nero condannato a morte per l’omicidio di una ragazza che non aveva commesso. Dal libro è stato tratto il film omonimo uscito in Italia all’inizio
di quest’anno.

 

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La «lotta» di Elizabeth Warren

Eletta del Massachusetts, da sempre tra le esponenti di punta della sinistra del Partito democratico, legata sia al mondo del lavoro che ai movimenti femministi, già candidata alle primarie che hanno però visto emergere Joe Biden, Elizabeth Warren ricostruisce in Questa lotta è la nostra lotta (Garzanti, pp. 428, euro 20, traduzione di Paolo Lucca) la sua storia di giovane della working class di Oklahoma City che ha partecipato fin dagli anni Sessanta ai movimenti sociali e per diritti civili. La «lotta» che racconta Warren è quella combattuta dall’America progressista nell’ultimo mezzo secolo.