A detta di molti osservatori Obama viene sconfitto alle elezioni di medio termine, nonostante debolezze e divisioni in campo repubblicano, a causa dei deludenti risultati politici e soprattutto economici ottenuti. Tale parabola in qualche misura è il miglior termometro delle ricadute sociali prodotte dall’economia politica dominante. Il paradosso è che ciò avvenga proprio quando il presidente Usa è definito dal Nobel Paul Krugman «uno dei presidenti più importanti e di successo della storia americana». Al suo attivo sembrerebbero esserci «solo» il salvataggio della finanza (profondamente ancorata alla società Usa) e persino la ripresa economica. Non sono affatto poca cosa. Allora perché un così basso gradimento popolare? Non si può, parafrasando Brecht, cambiare popolo, poiché non capisce le scelte del presidente. Ci sono sempre più elementi che impediscono di far coincidere la fine della crisi finanziaria e persino economica con quella sociale. Gli Usa sono l’emblema di tale tendenza, affiancati dal Regno Unito, dove la crescita sembra essere ripartita, ma dove i consensi ancora tardano ad arrivare a giudicare anche qui dalle ultime contese elettorali.

Intanto in Europa, in particolare in Italia, una costante litania suggerisce i moventi per perseguire la crescita: far ripartire investimenti, profitti e consumi, così da aumentare le entrate fiscali, ridurre il debito pubblico, poter persino tornare a potenziare il welfare per alcuni o semplicemente abbassare le tasse su lavoro e impresa e far ripartire l’economia per altri. Insomma in andata o in ritorno la crescita economica è considerata decisiva per tornare al benessere. Ciò che è implicito nel perseguire la crescita è che non solo essa sia indice di salute del sistema, ma anche che a trarne beneficio sarebbero tutti, seppur in misura diversa, secondo l’adagio marinaresco che l’alta marea solleva in alto tutte le imbarcazioni. Nei paesi anglosassoni, però, tale implicito sembra per ora non incontrare il favore popolare. Non solo la stabilizzazione del sistema finanziario non ha rincuorato gli animi, ma neppure la ripresa dell’economia reale sembra riuscirci. Non è necessario essere degli estimatori della decrescita per riflettere sul fatto che la crescita non funziona più come un tempo. In genere a dare vita a cicli economici virtuosi sono molteplici e complementari fattori: una domanda autonoma di investimenti, spesa pubblica, esportazioni, aumento demografico, crescita della produttività. Si può affermare che la gran parte di tali fattori siano operanti, perlomeno in alcuni paesi anglosassoni e non solo, ma che la spinta potenzialmente più significativa per la crescita nella nostra epoca è data dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Tuttavia neppure la rivoluzione digitale ha dato vita a un ciclo lungo di crescita. Ha trasformato le nostre vite, senza creare quel benessere annunciato. Perlomeno nei paesi occidentali, che di queste trasformazioni sono stati il cuore propulsore, la crescita ove si affaccia è sempre più scissa sia dalle necessità ecologiche che dalla più generale qualità della vita. Eppure Thomas Piketty, nella sua opera sulla diseguaglianza, spiega come sarebbe sufficiente una crescita continua dallo 0.5 al 1.5% annuo per migliorare le condizioni di vita di generazione in generazione. Tra la crescita modesta dell’Europa (+0.8% di media) e quella più significativa di paesi come Usa e Gran Bretagna (da 2 a 3%) siamo in un intervallo di grandezza che va ben oltre quello individuato dall’economista francese, è da chiedersi perché non basti ancora e perché sia in corso uno scontro tra generazioni ove i figli si stanno impoverendo più dei genitori. Forse non è più un problema di quanto, ma di come e dove si riversa la crescita.