Usciamo da un’estate che ha superato tutti i record di caldo. Qualcosa ci dice che non c’è tempo da perdere. I primi a spiegarci che il mondo si regge su un equilibrio dinamico delle forze e degli elementi che compongono l’ordine naturale sono stati i filosofi di Mileto. Si deve a Talete, Anassimandro e Anassimene l’avvio di una osservazione della natura libera dalla mitologia. Prima di loro si pensava che la natura fosse governata dagli Dei, anzi ne fosse emanazione diretta. Con Talete l’«archè», l’origine e il principio di tutte le cose, viene individuato in un elemento fisico: l’acqua. Ma la riflessione si allarga a tutti gli elementi costitutivi della natura: il vento, l’aria, l’acqua, il vapore, il fuoco, il ciclo delle acque che evaporano dalla terra e vi ritornano in forma di pioggia. Anassimene si spinge a porre sullo stesso piano il ruolo della respirazione per gli esseri viventi e quello dell’atmosfera intorno alla terra. In uno dei pochi frammenti attribuito a lui è scritto «Proprio come la nostra anima essendo aria, ci domina tenendoci insieme, così respiro e aria circondano l’intero cosmo».

Con la scuola di Mileto inizia dunque la ricerca sul rapporto uomo-natura. Da allora sono passati 2500 anni e la filosofia e la scienza hanno fatto una lunga strada. E siamo in uno di quei tornanti della storia del mondo in cui il pensiero critico andrebbe esercitato al meglio. Se non altro per comprendere «l’origine e il principio» del cambiamento climatico.

In tanti ancora dubitano del fatto che i disastri, che si abbattono con tanta violenza sulla nostra terra, siano l’effetto perverso di due secoli e mezzo di sviluppo capitalistico. Uno sviluppo basato su due fattori fondamentali: lo sfruttamento della classe operaia e la rapina delle risorse naturali del pianeta. Si è avuta una crescita economica senza precedenti. Le condizioni di vita, almeno in occidente, sono considerevolmente migliorate. Il prezzo pagato, però, è stato caro. Sono aumentate le disuguaglianze sociali e territoriali. Il divario tra livelli di povertà e ricchezze smisurate nelle mani di pochi è diventato intollerabile. Uomini e cose sono sottomessi alla logica alienante e disumana del massimo profitto.

Questione sociale e questione ambientale si intrecciano. La quantità di C02 emessa nell’atmosfera, per soddisfare le esigenze del mercato, è sempre maggiore. Da qui il climate change. Ma sono i paesi poveri a subirne le conseguenze più pesanti. L’acqua del mare si innalza e invade i campi coltivati del Bangladesh, distruggendone la fertilità. Le dune del deserto avanzano nei villaggi e nelle città delle aree subsahariane e, a causa della siccità e della fame, si determina una forte spinta alle migrazioni di massa. Di solito nei paesi vicini, Solo una minoranza si avventura verso l’Europa.

I negazionisti sostengono l’assenza di qualsiasi collegamento tra questi sconvolgimenti e il cambiamento climatico. Saremmo in presenza di alterazioni temporanee dei fenomeni naturali. La pandemia è, invece, lì a ricordarci che l’equilibrio ambientale è precario. Ci mostra quanto l’uomo sia vulnerabile.
Nonostante i rischi per il pianeta e per la salute pubblica, manca ancora la risolutezza necessaria nel contrasto del cambiamento climatico. La transizione ecologica rappresenta il tentativo di conciliare, quanto più possibile, la sostenibilità ambientale con l’attuale sistema economico. I governi dei paesi occidentali, in genere a trazione liberale, sono convinti che una trasformazione radicale del sistema energetico avrebbe conseguenze devastanti sull’industria dell’auto, sulla chimica e sugli altri settori da cui dipende la ripresa economica. Il punto è proprio questo.

La conversione ecologica non è compatibile con l’idea della crescita illimitata. Il passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili presuppone un cambiamento profondo nel modo di produzione e di consumo, e negli stili di vita. La «transizione» non può ridursi ad escamotage per rinviare il momento di scelte strategiche e risolutive.

Nel campo conservatore è in atto un confronto aspro tra i fautori del liberalismo classico, che continuano a credere nella virtù taumaturgica del libero mercato e i liberal democratici, che propongono una politica di mitigazione dell’impatto ambientale e di attenuazione delle disuguaglianze sociali.
La sinistra sembra accomodata nel ruolo di coscienza critica del pensiero liberal. Stenta a diventare protagonista di un’iniziativa autonoma e di massa che ponga al centro la contraddizione insanabile tra la logica del profitto e l’esigenza di salvaguardare il pianeta. Il monito di Rosa Luxemburg «socialismo o barbarie» risuona più che mai attuale.