Il cielo è grigio, in centro, sotto ai portici dei negozi di via Indipendenza, la folla di un sabato qualunque, giornata pigra da spendere nei caffé, a caccia degli ultimi saldi, tra le occasioni del mercato settimanale in attesa della sera. Domani (oggi per chi legge, ndr) si vota, governo (con preoccupazione altissima), media, commentatori guardano da giorni all’Emilia Romagna come alla prova più difficile per la «formazione» giallorossa del premier Conte, con scambi di messaggi trasversali e il rischio di una crisi eppure nel capoluogo emiliano sembra un fine settimana come tanti, al massimo le prossime elezioni sono materia divertita di gossip sulla saga familiare che oppone la candidata leghista, Lucia Borgonzoni, al padre. Anche se poi, quando ci si incontra, persino nei corridoi lunghissimi dei capannoni della Fiera, che ospitano la 44a edizione di Arte Fiera, sono in tanti a sussurrare con preoccupazione che qui è diverso, che qui non è la Romagna o qualche altra città, che so? Ferrara ad esempio, o Ravenna, che qui, a Bologna, non ci sono dubbi: ma il resto?

È SOLO ORGOGLIO campanilista o si tratta invece del termometro di una situazione «silenziata» dal divieto dei sondaggi e vissuta nella percezione quotidiana? Allora ti accorgi che nonostante la facciata tranquilla l’ansia c’è, è lì un po’ messa da parte, mascherata dagli incontri, tra champagne e tigelle nell’area vip e negli stand delle gallerie che affollano quello che sembra un appuntamento obbligato per il mercato dell’arte. E persino in coda al freddo, la sera prima, aspettando il debutto – nei nuovi spazi di DumBo – di Romeo Castellucci col suo nuovo lavoro La vita nuova i timori galleggiano come il fiato nell’umidità gelata.

Per sapere cosa accadrà tra poche ore non basta forse la lungimiranza di uno dei veggenti protagonisti di Devla, devla … , l’happening che Luca Vitone ha pensato per Arte Fiera, disseminato come un segno nella mappa espositiva (sono 155 le gallerie italiane e internazionali presenti a Arte Fiera con un totale di 345 artisti): cinque rom che dietro a un separé leggono la mano a chi del pubblico accetta di farsi coinvolgere (tutti visto il continuo sold out). Questo one-to-one sensoriale – forma che oggi sta ritrovando centralità nella pratica teatrale di ricerca – lavora sulla profondità della chiaroveggenza – sia cartomanzia che chiromanzia – nella tradizione rom: non la «banalizzazione» di «amore-fortuna-denaro» ma un incontro che scruta nell’invisibile delle emozioni, nello sguardo, nei silenzi, seguendo le linee della mano (e dei cuori), le esitazioni, ciò che affiora nell’intimità di una relazione disegnata in quello spazio ristretto e in quel momento al di là del quotidiano.

All’origine di Devla, devla … c’è il progetto Romanistan (dal 6 al 9 febbraio al Maxxi di Roma) il viaggio/opera che Vitone ha compiuto a ritroso di quello dei rom dall’India verso l’Italia, dove le prime tracce della loro presenza risalgono al 1422 – l’artista aveva già lavorato sulla loro storia nelle Carte Atopiche, 1988-1992, concentrandosi soprattutto sui luoghi e sui territori, e poi in Il luogo imprecisato nel quale invece metteva a fuoco il sentimento della perdita.

VITONE partendo dall’Italia per l’India ne cerca la storia e la cultura attraverso i luoghi, la musica, gli incontri con politici, attivisti, accademici – «la borghesia rom» – nei paesaggi, nei frammenti di quotidianità, un materiale che ha preso la forma di una mostra, di un libro (Humboldt Book, Centro Pecci), di un film in cui si racconta – come leggiamo nel testo dell’autore: «Un popolo che si può con ironia definire più italiano della pasta al pomodoro, visto che è con noi da ben prima delle conquiste delle Americhe, ma che continuiamo a considerare più straniero dell’ultimo straniero arrivato».

Devla, devla … è una delle proposte all’interno di Oplà. Performing Activities sezione curata da Silvia Fanti – alla seconda edizione – che esplora appunto i legami tra arte e performance, quest’anno oltre a Vitone con gli interventi di Alessandro Bosetti (L’ombra), Jimmy Durham (The Bureau) e Zapruder con Anubi is not a Dog. Nelle note di presentazione, Zapruder (Nadia Ranocchi e Davide Zamagni) scrivono che l’immagine guida del progetto è stata una foto, scattata a Helsinki, in cui appaiono alcune opere di Karl J., un giudice di dog shows incontrato a Helsinki: «Di fatto dopo poche ore da quello scatto abbiamo cominciato a mettere insieme gli elementi di Anubi is not a Dog».

Ma di cosa si tratta? Intanto dell’inizio di un percorso che dovrebbe portare a un nuovo film, guidato nelle premesse dalla stessa tensione del loro Zeus Machine. L’invincibile, ovvero un allenamento costante, giocoso e filosofico insieme, delle immagini nel rapporto con una fiscità, conun movimento di corpi, di macchine, di spazi, di luoghi.

AL CENTRO qui c’è la relazione tra i cani che partecipano ai «Dog Show» e i loro padroni, due corpi perfettamente sincronizzati, complici, quasi in simbiosi, che si specchiano l’uno nell’altro. Il pubblico, cioè noi, è dietro a un vetro e osserva da fuori, separato, le tre esibizioni che si susseguono nella sala dello Spazio Operai: Lusy Imbergerova e Gloria Allasio – entrambe con una border collie – e Rita Ruberto con una cagnolina Jack Russell. Le regole delle competizione sono un po’ cambiate, fuori dalla «gabbia» di vetro risuonano nel microfono le parole dell’umano al cane, indicazioni di movimento che nelle gare sono mascherate, quasi in modo ventriloquo per non perdere punti e dare al numero l’impressione di essere eseguito nella massima naturalezza possibile, quella che solo allenamento e disciplina millimetrati possono garantire.

Le due creature si osservano, coordinano i propri movimenti, piede/zampa, il cane, a noi dietro al vetro, appare quasi polarizzato dalla padrona, ma mentre il numero va avanti balena anche il contrario: quegli «ordini», quella sequenza, quell’affinità avvengono perché la fusione tra i due in quel momento è assoluta, nei ruoli e nell’addestramento che prevede sempre – appunto – una relazione.

LE MACCHINE da presa filmano, registrano, cercano di guardare oltre, di cogliere quanto è sospeso nell’apparenza, al di là dei nostri occhi, di intuire la dimensione fuggente che quel «doppio passo» racchiude. E noi spettatori intanto osserviamo insieme al cane e al padrone il «farsi» di qualcos’altro, un rapporto che si moltiplica nelle sue possibilità: lo spettacolo dell’immagine e la sua creazione.