La Corte penale internazionale (Cpi) ha alla fine deciso di aprire un’indagine sui crimini commessi dal governo birmano contro la minoranza Rohingya. Perché tale indagine non è già stata aperta quando è iniziata la persecuzione nell’ottobre 2016? Qual è suo valore dopo tre anni dall’inizio del massacro? Giornalisti e associazioni per i diritti umani hanno già documentato tempestivamente i crimini commessi dal governo del Myanmar.

La Birmania non è un membro della Cpi, e la mancanza di competenza ha impedito alla corte di agire. Tuttavia, dal momento che alcuni crimini sono stati commessi dal governo del Myanmar in Bangladesh, il paese vicino dove si sono rifugiati da circa 600.000 a un milione di rifugiati Rohingya, si è aperta una possibilità. Il Bangladesh, infatti, è uno dei 122 stati che ha aderito alla Corte. La Cpi è quindi in grado di indagare sui crimini transfrontalieri commessi dagli agenti del governo del Myanmar, ma non sulla maggior parte delle violazioni che si sono verificate entro i confini dello stato. Meglio di niente, potremmo dire, ma la Corte avrebbe potuto fare di più?

Nei suoi quasi 20 anni di attività, la Cpi è riuscita a mandare in prigione solo una manciata di criminali ed è improbabile si aggiungano ad essi qualche soldato o poliziotto birmani, visto che saranno debitamente protetti dal proprio governo. In queste circostanze, la Cpi continua ad essere una sorta di autorità morale senza denti per mordere. Altre organizzazioni della società civile sono riuscite a svolgere esercizi simili molto più rapidamente e con risorse molto minori: il Tribunale permanente dei popoli è già riuscito a emettere una sentenza molto dettagliata, sulla base delle informazioni raccolte da organizzazioni per i diritti umani, giornalisti e vittime. E ben due anni fa.

Il ruolo della giustizia penale internazionale non è solo quello di punire una manciata di criminali. A partire dal Tribunale di Norimberga, i processi servono a denunciare i reati commessi, dare voce alle vittime, riscrivere la storia e spianare la strada per la coesistenza futura. Ma la Cpi, creata dopo una lunga campagna condotta da gruppi per i diritti umani e da qualche governo progressista, dovrebbe ora con più coraggio rispondere alle aspettative.

I Rohingya avrebbero avuto bisogno di un’autorevole missione internazionale per prevenire le persecuzioni, consentendo loro di vivere in sicurezza nella loro patria e non l’hanno ottenuta. Avrebbero avuto bisogno di assistenza internazionale per sopravvivere nei campi dei rifugiati e l’hanno ottenuta solo parzialmente. Avrebbero avuto bisogno che le loro voci fossero ascoltate e che i responsabili dei crimini fossero identificati e, auspicabilmente, puniti.

La Cpi non ha competenza sulle prime due faccende. Ma avrebbe potuto provvedere almeno la terza, e molto prima. Speriamo sia ora in grado di chiudere tempestivamente le indagini. Altrimenti i Rohingya, dopo i danni, subiranno anche la beffa.

 

* Co-autore di Delitto e castigo nella società globale (Roma, Castelvecchi, 2018)