Quanto accade al Liceo Fermi di Cosenza può apparire un piccolo e banale episodio dell’arte italiana di arrangiarsi. O, come di solito si dice, una formula creativa per dare soluzione a problemi altrimenti irrisolvibili in una fase di perdurante penuria di risorse. Così, per fortuna, non è apparso alla Cgil locale e a vari altri osservatori, soprattutto alcuni docenti dell’Università della Calabria, che hanno sollevato il caso davanti all’opinione pubblica regionale. Io credo, come questi ultimi, che l’iniziativa del dirigente scolastico si configuri come una violazione del diritto costituzionale. La Costituzione – ha ricordato il giurista Silvio Gambino – prevede esplicitamente, perfino diversamente da quanto accade, ad esempio, per la Sanità, dispositivi organizzativi pubblici per la completezza del processo formativo dei ragazzi.

Tuttavia, non si tratta solo di questo. L’iniziativa di cui parliamo prevede che i corsi scolastici privati dentro le mura della scuola pubblica siano svolti da docenti scelti dalle famiglie. Sembra la conquista di una libertà, ed è invece un dispositivo di distruzione tipico delle politiche neoliberiste. In questo modo viene minato un istituto fondativo della nostra società. La scuola cessa di essere il luogo di formazione delle nuove generazioni, secondo un progetto pubblico generale e si dissolve in una miriade di rapporti contrattuali privati: la famiglia paga un insegnante per avere il servizio della formazione dei figli. La formazione non è più concepita come un processo collettivo di emancipazione sociale e culturale, ma come l’acquisizione individuale di un sapere utile da impiegare nel mercato del lavoro.

Pur nella sua dimensione per il momento isolata ed episodica, l’iniziativa del Liceo Fermi si inscrive in una corrente profonda della vita pubblica italiana e non solo italiana. La tendenza è ormai da tempo emersa in tutta la sua forza in vari settori del welfare nazionale e da tempo ha investito la scuola e tende a guadagnare sempre nuovi spazi nelle più diverse forme. Lo schema è ormai chiaro: si riducono drammaticamente le risorse pubbliche destinate ai vari ambiti dei servizi (sanità, trasporti, pensioni, istruzione) e si costringono i cittadini a ricorrere all’offerta messa in campo dall’iniziativa privata. Quel che prima era un diritto sancito dalla Costituzione diventa una prestazione offerta dietro pagamento. Si trasferisco nel mercato, e quindi si mettono sulle spalle dei cittadini, pezzi sempre più ampi di servizi collettivi.

Nella scuola italiana i tentativi di distruggere le conquiste realizzate nel secondo dopoguerra sono diventati rilevanti soprattutto nei primi anni Novanta, quando l’allora Forza Italia, appena “scesa in campo” e anche la Lega – con un particolare protagonismo di Irene Pivetti, diventata addirittura presidente della Camera – lanciarono una campagna ideologica contra la scuola pubblica. Il Sole 24 Ore, il giornale della Confindustria fu in prima fila in questa battaglia. La nostra veniva allora definita sprezzantemente “scuola statale”, come se si trattasse del Monopolio dei Tabacchi. Appena affacciatasi alla ribalta italiana, la destra neoliberista rivendicava, per le famiglie, il “diritto di scegliere” la scuola per i propri figli. Si trattava di una pretesa ricavata con poco senno dall’ economista americano Milton Fiedman – uno dei padri dell’ideologia fallimentare nelle cui macerie ancora annaspiamo – che appunto teorizzava, per gli Usa del suo tempo, una “libertà” resa possibile, in quel paese, dall’esistenza di un’ampia offerta formativa privata. Secondo questi improvvisati neofiti, lo stato italiano – che assicura gratuitamente ai ragazzi un formazione libera e laica, con insegnanti reclutati con pubblico concorso – doveva garantire le risorse alle famiglie (un bonus, oggi utilizzato in alcune regioni come la Lombardia) che volevano iscrivere i loro figli alle scuole private. Questi rigorosi liberisti non rivendicavano semplicemente un diritto – del resto pienamente riconosciuto dalla Costituzione – pretendevano, al contrario, che che lo stato pagasse i privati per rendere possibile un sistema “concorrenziale” di offerta formativa. Si doveva creare un “mercato scolastico”, ma con le risorse dello stato. Alla campagna ideologica, fallita per la sua insostenibilità sia finanziaria che teorica, è tuttavia seguito nei fatti un sempre più dispiegato sostegno alle scuole private e soprattutto confessionali. Tanto i governi di centro destra che di centro sinistra, per ragioni di basso clientelismo elettorale (con una subalternità culturale dei partiti laici al Vaticano mai sperimentata prima nell’Italia repubblicana) hanno favorito questa deriva, mentre le risorse pubbliche venivano sempre più ridotte. La crisi economica degli ultimi anni è stata poi occasione per assestare colpi devastanti alla scuola pubblica, oltre che all’Università. E questo rende possibile episodi come quello di Cosenza, da combattere senza riserve, rivendicando il diritto all’istruzione gratuita sancito dalla Costituzione.