«Sappiamo che rendere visibile un’altra storia non crea automaticamente un’altra storia, tuttavia può influire nel modo con cui collettivamente percepita e in/generare nuovi universi narrativi». Così si esprimeva Federica Fabbiani appena un anno fa sulle nuove produzioni televisive e il rapporto con il femminismo in Zapping di una femminista seriale (L edizioni).
Il percorso di lettura prosegue ora con il secondo e ultimo libro, Sguardi che contano. Il cinema al tempo della visibilità lesbica (Iacobelli editore, pp. 168, euro 13, collana «I Leggendari»). In entrambi i testi si produce una riconfigurazione non fallogocentrica. Chi scrive si sa figura a rischio di scomparsa, ma pervicacemente elabora un percorso espressivo e politico ineludibile.
L’orizzonte critico e narrativo di Sguardi che contano, dedicato al cinema lesbico, parte da Cuori nel deserto (1985): «Impossibile per chi iniziava a cercare il proprio posto nel mondo negli anni ’80, sfuggire a quella sorta di triangolazione tra estetica, sfera del politico e componente affettiva che ha, a lungo, caratterizzato la topografia critica dello sguardo lesbico. Il coronamento della storia d’amore sullo schermo diventava in quel momento una possibilità di esistenza che, come ben sappiamo, da altre voci belle e autorevoli, non era prevista».

LA LUNGA E LENTA SCENA di sesso del film di Donna Deitch, prima inimmaginabile, può essere letta come un rito di liberazione non solo epistemologica. Il closet lesbico è popolato, più che da mostri, da fantasmi.
Terry Castle, in The apparitional lesbian (1993), sottolineava infatti come il soggetto lesbico fosse presente tra le righe dei film, sfumato o «sbianchettato», effetto-fantasma. La lesbica era difficile da individuare, evanescente anche se in piena luce o al centro dello schermo. Quasi impossibile oggi, in un tempo di ipervisibilità lesbica, afferrare la doppia fatica delle visioni che hanno preceduto Cuori nel deserto. La fatica consisteva, secondo Simonetta Spinelli, in un: «resistere alla frustrazione di viversi come l’irrappresentabile e scavare ogni possibile anfratto del rappresentato alla ricerca di tracce che, per giunta, devono essere costruite-decostruite-ricostruite».

Difficile nel presente una simile operazione di collage. L’adolescente Santana di Glee ha cantato Constant craving di k.d. lang, l’inno del suo coming out, davanti ai milioni di persone del suo fandom. Eppure, ancora, lo snodarsi dei vissuti e delle esistenze lesbiche resta spesso sfuocato. Persino fra le iperfinzioni critiche dei Netflix lesbici e in un ottimo film permeato da temporalità queer come Carol, ci ricorda Fabbiani, pullulano lacune espressive e politiche. Cosa rende lesbico un film? Questa la domanda che percorre il testo. Forse una lettura di Je tu il elle (1974) o di Les rendez-vous d’Anna (1978) di Chantal Akerman avrebbe potuto tracciare una possibile traccia di rovesciamento del punto di vista eterosessuale. Resta da rielaborare il progetto rivoluzionario che Monique Wittig attribuiva al «soggetto cognitivo» lesbico in The Straight mind (1992; Il pensiero eterosessuale, a cura di Federico Zappino, ombre corte). Il libro di Fabbiani percorre un’altra via. Sguardi che contano tenta di ricomporre il corpo lesbico dalle tracce spesso contraddittorie che emergono nell’attuale visibilizzazione del soggetto. Si produce una nuova ricerca di tracce che devono essere ancora costruite-decostruite- ricostruite.

SUL PERCORSO due segnavia importanti: Vida e Copia originale, entrambe del 2018. La prima è una serie tv ispirata a Gloria Anzaldùa, scrittrice lesbica chicana. Si tratta di dimensione plurilinguistica, dove si parla la lingua nuova della mestiza, tra frontiere mescolantesi una nell’altra. Il secondo è un film su Lee Israel, butch e scrittrice, un’outsider che non sa conformarsi a un mondo dove gli scrittori – non casuale il maschile – sono mero brand e i libri merce. Le conclusioni di Fabbiani rimandano all’analisi di un presente complesso in cui è necessario «rimanere vigili, esplorare nuovi territori, sperimentare la propria libertà, ma anche tornare sulle rotte del passato per non perdere la memoria, per ricordarci che siamo altro, per ritrovare l’ispirazione dell’essere sempre e comunque dissidenti».