Non sempre andare all’ospedale significa uscirne integri, e non sempre la colpa è dei dottori. Quella che segue è una vicenda surreale accaduta in un grande nosocomio milanese e che svela come a volte la carogneria di pensiero porti caos e danni anche fisici. È una mattina di Novembre e siamo agli sportelli dove si prenotano visite, controlli diagnostici, si ritirano referti, pagano ticket, gestiscono ricoveri e via dicendo. Come ormai è prassi, ogni persona deve ritirare un numero di prenotazione e poi aspettare il proprio turno che, nel caso specifico, richiede anche più di un’ora di attesa dato l’affollamento consistente. A uno sportello arriva un signore che ha già fatto un’ora e mezza di fila. Lui presenta all’impiegata gli incartamenti e questa gli fa: «Ha sbagliato a prendere il numero. Qui non facciamo quello che serve a lei. Deve prendere un altro numero e rifare la fila». Il poveretto sbianca, dice che ha già aspettato tantissimo, che ha chiesto un permesso, deve tornare al lavoro e non può stare lì un’altra ora e mezzo. L’addetta gli dice: «Non è affar mio. Doveva stare più attento». Lui insiste, chiede, richiede, implora, ma nulla, l’altra è inamovibile, così diventa inamovibile anche lui che si rifiuta di andarsene da lì se lei non gli farà passare la pratica. Intanto dietro la fila si ingrossa. Salgono i toni, il nervosismo, le impuntature finché l’addetta allo sportello non chiama il servizio di sicurezza dell’ospedale.

ARRIVANO in due, uno di stazza normale, l’altro un marcantonio che prima cercano di convincere il signore a desistere e poi, viste le sue resistenze, lo prendono per un braccio per spostarlo letteralmente di lato. Lui reagisce, comincia a urlare «Non mi toccate», ne nasce un parapiglia, una specie di colluttazione finché cascano tutti e tre addosso a una signora che stava aspettando il proprio turno appoggiata a un pilastro. Il marcantonio, per proteggersi nella caduta, appoggia dietro di sé un gomito che finisce diritto diritto nel torace della signora, rompendole due costole. Lei comincia a boccheggiare, il signore con il numero sbagliato perde l’equilibrio, cade come un peso morto sulla schiena, picchia la testa contro lo spigolo di una sedia e sviene. A questo punto sul terreno ci sono due feriti e due uomini dell’ordine, la fila è diventata gigante e la confusione totale perché ovviamente cominciano ad arrivare infermieri e dottori che soccorrono l’uomo svenuto e la donna con le costole rotte che dice: «Pensate a mia madre, è di là in attesa della visita e ha 88 anni».

BENE o male la signora, mezza fasciata e dopo un’ora, riesce a tornare all’accettazione per terminare quello che aveva dovuto sospendere causa marcantonio dell’ordine addosso. Siccome è tignosa, mica va al primo sportello che si libera, ma fa di tutto per andare proprio in quello dove sta l’impiegata intransigente. Appena le arriva davanti aspetta che l’addetta sbrighi la pratica, poi le dice: «Lei si deve vergognare, ha interrotto un pubblico servizio per non aiutare un poveretto in palese difficoltà. Che cosa le costava ascoltarlo? Forse ha fatto tutto questo can can perché lui non era italiano? Se è così si deve vergognare ancora di più». L’altra è rimasta senza parole e non ha replicato. Non si aspettava che un’italiana, invece di farle i complimenti e spalleggiarla, le dicesse quanto era stata un’ottusa burocrate e con sottofondo razzista.
Ecco, quando Matteo Salvini dice di parlare a nome di 60 milioni di italiani bisognerebbe presentargli quella signora che, nonostante le costole rotte e una mattina buttata, non è stata zitta.

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