Le istituzioni non sono il frutto di un patto tra gentiluomini, né il prodotto di menti illuminate ritiratesi a conciliabolo nello splendido isolamento di una torre d’avorio per progettare architetture valide in ogni tempo e in ogni spazio. Le istituzioni sono il parto di blocchi sociali e storici in urto tra loro.

Il ground zero di ogni istituzione è il conflitto sociale, e le Costituzioni ne rappresentano la codificazione. Questa codificazione può significare la presa d’atto di una lenta maturazione di equilibri nuovi nella società, o di una crisi a prima vista improvvisa dei vecchi equilibri, o più spesso del sovrapporsi dei due fattori. Si tratta comunque di processi storici, e come tali sempre soggetti a rischio obsolescenza.

Per questo, la lotta per la «difesa delle istituzioni» non ha un valore di per sé. Finché nella società è saldo e vivo il blocco storico che ha portato all’edificazione dell’architettura istituzionale, la difesa delle istituzioni è aperta alla progressiva integrazione del popolo nello stato, e le forze politiche che la promuovono acquistano e rinforzano la propria legittimità.

È il caso della nostra «prima repubblica», che ha favorito in maniera tutto sommato pacifica l’irruzione delle masse nella vita sociale e politica del Paese, una rivoluzione che a sua volta ha contribuito alla legittimazione del sistema dei partiti.

Ma quando viene a mancare il retroterra storico-sociale che ha tenuto a battesimo l’assetto istituzionale, le forze che «difendono le istituzioni» sono destinate a crollare con esse. Non fu forse un tentativo fuori tempo massimo di «difendere le istituzioni» la convocazione degli Stati Generali da parte di Luigi XVI nella Francia del 1789? O la riproposizione del giolittismo nell’Italia dell’immediato primo dopoguerra?

Negli ultimi trent’anni n tutto l’Occidente si è assistito a una progressiva operazione di costruzione di istituzioni nuove, sotto la spinta della restaurazione neo-liberista. Sotto il peso convergente dell’assalto oligarchico dall’alto, e della frantumazione dal basso del corpus conflittuale che aveva tenuto a battesimo le costituzioni antifasciste, le istituzioni del «secolo breve» sono state svuotate, grazie a un sapiente dosaggio di attacco frontale e violento ai diritti dei lavoratori, di ristrutturazione degli apparati produttivi e di edificazione di un nuovo senso comune.

In questo panorama, il carattere pluralistico del conflitto sociale è stato paradossalmente colto prima e meglio dalle élite. Esse hanno elaborato la risposta adeguata in termini di governance, cioè di un assetto istituzionale flessibile che rifiuta le strutture rigide (come erano le Costituzioni del secondo dopoguerra), favorendo l’emergenza di processi giuridici contingenti che prefigurano una «costituzionalizzazione senza Stato» (Gunther Teubner).

Non si dà rappresentanza al conflitto, ma lo si rincorre flessibilmente laddove si presenta, elaborando risposte ad hoc. L’«estremo centro» propagandato dai sociologi della politica neoliberali. La sinistra invece, disorientata e sospesa tra una nostalgica residualità e una impolitica incapacità di tradurre il conflitto nuovo in istituzioni nuove, ha finito con l’abbandonare il campo.

Tuttavia oggi il modello della governance neoliberale mostra la corda, a seguito della terribile crisi in cui si è imbattuta a partire dal 2008 e dalla quale non sa (può) uscire. Se non, appunto, costituzionalizzando la crisi stessa, irrigidendo le strutture flessibili della sua governance.

È quanto sta accadendo in Italia. In questo frangente si apre dunque una straordinaria finestra di opportunità per le forze popolari. Chiamate a elaborare un modello alternativo, previa una necessaria lotta anti-istituzionale.

La situazione italiana è, da questo punto di vista, paradossale, perché proprio la difesa della Costituzione del ’48 può costituire un grande momento anti-istituzionale.

Si pensi all’articolo 1 che fonda la Repubblica sul lavoro, a fronte di istituzioni neo-liberali fondate sulla sua svalutazione, e fa risiedere nel popolo la sovranità, contro la deriva tecnocratica ed elitista delle istituzioni neo-liberali; all’articolo 42, che prevede l’esproprio della proprietà privata come via allo sviluppo democratico, a fronte delle privatizzazioni che hanno costituito l’asse centrale della grande espropriazione neo-liberista; infine all’articolo 11, che vincola lo stato al ripudio della guerra, contro la costituzionalizzazione della guerra da parte della governance neo-liberista.

Per questo non pare una buona tattica abbarbicarsi alla necessità della «difesa delle istituzioni» contro il «populismo».

Meglio sarebbe scegliere il terreno del conflitto, e su quel terreno cominciare a pensare a istituzioni nuove, avvalendosi di quel paradossale strumento che è la nostra Costituzione antifascista.