L’ineffabile ministra Lorenzin ci ha consegnato in un talk show serale la notizia che con la riforma costituzionale Renzi-Boschi cesseranno le attese interminabili e i divari territoriali che affliggono il servizio sanitario nazionale, grazie al rientro della sanità nella potestà legislativa esclusiva dello Stato. Siamo perplessi. Per l’articolo 117 della Costituzione vigente lo stato ha già una potestà esclusiva per i livelli essenziali delle prestazioni. Inoltre l’articolo 120 attribuisce al governo il potere di sostituirsi alle regioni e agli enti locali per la tutela di quei livelli essenziali e per l’unità giuridica ed economica della Repubblica. Per gli esempi addotti dalla ministra lo Stato potrebbe intervenire già oggi, senza necessità di alcuna riforma. Mentre la Renzi-Boschi lascia alle Regioni la «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali».

Allora, cosa potrà mai dare in più la riforma ai malati? Farà guarire i malati terminali di cancro? O magari invertirà la caduta della fertilità, che tanto preoccupa la ministra? Come per i teorici risparmi derivanti dal nuovo senato e destinati – a sentir Renzi – ai poveri, la riforma per i malati non farà proprio nulla. Ma siamo grati al ministro per averci chiarito quel che potrà e dovrà fare da subito, anche se vince il No.

Le ragioni delle riforme renziane sono altrove. Le riassumiamo così: normalizzare le istituzioni e il paese, imbrigliando il dissenso al fine che non si disturbi il manovratore. Troviamo la prova in due punti della Renzi-Boschi.

Il primo punto è la clausola di supremazia, citata anche dal ministro. Su proposta del governo, la legge statale può entrare in qualunque materia di competenza regionale per ragioni di interesse nazionale o di unità giuridica ed economica della Repubblica. Ma abbiamo visto che per l’articolo 120 della Costituzione il governo ha già un potere di sostituzione. E allora perché?

Una sostituzione opera su provvedimenti specifici, lasciando per il resto la titolarità del potere a chi la detiene normalmente. Mentre la clausola di supremazia consente al legislatore statale di espropriare il potere in sé, togliendo in via definitiva voce alle istituzioni di autonomia. Su problemi come le trivelle, l’estrazione del petrolio, le discariche, gli inceneritori, l’alta velocità, il deposito di scorie nucleari o magari il ponte sullo stretto, la differenza è sostanziale. Con la nuova clausola si imbavagliano in via permanente e si normalizzano le comunità locali. Che il senato cosiddetto «dei territori» non sarebbe in grado di difendere, essendo il suo voto superato dal diverso voto della camera proprio per le leggi fondate sulla clausola di supremazia.

Il secondo punto è il voto a data certa, per cui il governo può chiedere che un disegno di legge essenziale per l’attuazione del suo programma sia sottoposto alla pronuncia in via definitiva della camera entro 70 giorni. Si badi: qualunque disegno di legge, entro il termine massimo indicato.

Ma a ben vedere una maggioranza di governo coesa ha già oggi tutti gli strumenti per decidere se e quando andare al voto finale. Elegge infatti il presidente dell’assemblea, i presidenti delle commissioni di merito, e controlla la conferenza dei capigruppo, che decide tempi e modi del lavoro d’aula. Una legge contestatissima come il lodo Alfano impiegò solo ventidue giorni dalla proposta del governo al voto finale in entrambe le camere. E allora, a che serve la clausola?

Serve a scrivere con una rigidità che si impone in futuro anche al regolamento parlamentare che è il governo a controllare l’agenda dei lavori. Porre un termine finale consente poi, rallentando il passo con un piccolo ostruzionismo di maggioranza, di arrivare al voto conclusivo impedendo ogni modifica al testo proposto. Si mette così il bavaglio ai dissensi di opposizione e ancor più di maggioranza, evitando polemiche pubbliche e questioni di fiducia magari non prive di rischio. In una parola, si normalizza l’istituzione parlamento.

Rientra tutto nel disegno di un popolo bue che vota per scegliere un governo e una finta maggioranza gonfiata dal premio, tace poi per cinque anni, e ritrova la voce solo nel successivo turno elettorale.

Hashtag #popolostaisereno. Capiamo perché piace ai potenti italiani e stranieri dell’economia e della finanza. Ma a noi No, grazie.