Nell’India contemporanea, tra i giovani e soprattutto in rete, li chiamano in gergo «bhakts», «sanghi», «hindu trolls». Ma fuori, nella vita analogica di 1,3 miliardi di indiani, le gesta e le influenze di milioni di ultrainduisti organizzati giocano un ruolo sempre più pericolosamente preponderante nelle quotidianità del subcontinente. La costellazione dell’estremismo hindu è di difficile misurazione scientifica e in continua espansione. Assume sembianze mutevoli di stato in stato, appoggiandosi su un’ideologia non nuova eppure assolutamente attuale.

L’Hindutva, il suprematismo hindu, fu teorizzata nei primi anni ‘20 del secolo scorso da V.D. Savarkar, politico protagonista del movimento indipendentista indiano «da destra» e padre del nazionalismo hindu. Cioè, tagliato con l’accetta e chiedo scuse preventive agli accademici, l’aspirazione a creare una nuova India che fosse solo degli hindu e che trovasse le proprie radici identitarie nella religione politeista allora, e oggi, maggioritaria. Tutti coloro che non avessero voluto aderire al sistema di valori e prescrizioni induista (dalla dieta alla divisione delle mansioni secondo le caste, adottata dal resto delle confessioni nel subcontinente), avrebbero fatto meglio ad andarsene altrove. La fondazione della Repubblica indiana, nel 1947, pur col travaglio della partizione col Pakistan voleva almeno formalmente dare vita a uno stato-continente di stampo laico e socialista, dove la miriade di minoranze etniche e religiose avrebbe potuto convivere e prosperare nel reciproco rispetto delle proprie «sensibilità».

Il primato della legge su carta rispetto a quella della strada, rimasto ad oggi una chimera, si sarebbe sempre scontrato con le pulsioni egemoniche e metodicamente fasciste di un’insieme variegato di gruppi estremisti molto organizzati al proprio interno e decisamente radicati sul territorio.

Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), Vishwa Hindu Parishad (Vhp), Shiv Sena, Bajrang Dal sono solo alcune tra le sigle più importanti di un consociativismo politico-culturale capace di mobilitare a comando masse oceaniche di attivisti, indire picchetti e manifestazioni, influenzare governi e imprenditori, esprimere esponenti politici e perseguitare intellettuali e artisti.
La Rss, letteralmente «organizzazione nazionale patriottica», per longevità e tradizione storica (fu fondata nel 1925) è riconosciuta come vertice dell’ultrainduismo nazionale, a capo di tutte le organizzazioni satelliti riunite nella cosiddetta Sangh Parivar, la «famiglia» del nazionalismo hindu. Grazie all’indottrinamento ai valori hindu e a un’educazione di tipo marziale – comprese marce, corsi di «autodifesa» e yoga – le propaggini dell’Rss si sviluppano in modo tentacolare avvolgendo ogni aspetto della vita sociale: educazione, spettacolo, accademia, sport, sindacalismo, imprenditoria e politica contano al proprio interno esponenti di rilievo cresciuti, formati e indottrinati all’interno dell’organizzazione.

Anche per questo, tre anni fa, mentre il mondo salutava con entusiasmo la candidatura di un «figlio di venditore di té» alla guida del governo indiano, in India l’ascesa di Narendra Modi ha destato preoccupazione per la tenuta democratica del paese.
Modi, come decine di pezzi grossi del partito nazionalista Bharatiya Janata Party (Bjp), ha militato all’interno della Rss sin dall’età di otto anni, risalendo la piramide dell’organizzazione fino a fare il salto in politica vincendo le elezioni locali del Gujarat nel 2001.

Nel 2002, durante l’amministrazione Modi, si verificarono in Gujarat scontri violentissimi causati da un episodio controverso: un gruppo di musulmani, secondo le ricostruzioni, avrebbe dato fuoco a un treno fermo nella stazione di Godhra, pieno di pellegrini hindu di ritorno da un evento organizzato ad Ayodhya, in Uttar Pradesh. L’evento consisteva in una celebrazione hindu organizzata sul luogo dove, fino al 1992, sorgeva la Babri Masjid: una moschea del sedicesimo secolo demolita da migliaia di estremisti hindu al culmine di una campagna promossa dallo stesso Bjp per «costruire un tempio di Ram» proprio al posto del luogo di culto islamico, costruito a bella posta, secondo i dotti del Bjp, sopra il luogo di nascita del mitico dio hindu Ram.

Gli scontri del 1992-’93 lasciarono sul campo oltre duemila morti (900 solo a Bombay), in maggioranza musulmani; la «vendetta» di Godhra, dieci anni dopo, carbonizzò quasi 60 persone; immediatamente seguì la controvendetta hindu, letale.

Sotto la reggenza del duo Narendra Modi (attualmente primo ministro indiano) e Amit Shah (allora ministro degli interni in Gujarat, ora presidente del Bjp), furono condotti in tutto il Gujarat pogrom mirati contro la comunità musulmana, organizzati da «uomini vestiti di color zafferano e pantaloni kakhi», indumenti riconducibili all’estetica dell’ultrainduismo organizzato. Il bilancio ufficiale fu di quasi mille morti, di cui oltre due terzi musulmani, trucidati da squadracce estremiste hindu coadiuvate, secondo i detrattori di Modi, da organi interni alla polizia e al governo locale del Gujarat. Accuse che però non hanno trovato ancora conferma nelle sentenze emesse fino ad oggi, generalmente caratterizzate da un alto tasso di assoluzioni per «mancanza di prove».

Dal 2002 a oggi Modi ha rifiutato ogni responsabilità, diretta o indiretta, del massacro. Del quale non sentì mai il bisogno di scusarsi, nemmeno a livello istituzionale.

Negli ultimi anni, se la condotta di Modi appare molto più lontana dall’attivismo ultrahindu in favore di atteggiamenti spiccatamente «market friendly» che ne hanno fatto una sorta di campione dell’ultraliberismo, le fiammate di violenza e odio intercomunitario sobillate da esponenti dell’ultrainduismo nazionale occupano ciclicamente le prime pagine dei giornali indiani. Linciaggi ai danni di musulmani, pestaggi e roghi contro i dalit, mobbing contro intellettuali laici e progressisti e continue restrizioni della libertà d’espressione vengono man mano «giustificati» come reazioni a «offese della sensibilità» degli estremisti hindu. Minoranza rumorosa e influente responsabile di quella che in India è già stata soprannominata la «stagione dell’intolleranza». Il peggior biglietto da visita della democrazia più «grossa» del mondo.