«Palmira è, senza dubbio, uno dei siti più famosi al mondo al pari di Giza, Luxor o Machu Picchu. La minaccia di distruzione che incombe sulle sue rovine ha sconvolto quanti, in passato, hanno avuto la fortuna di visitarla. Ma, a esser turbate, sono anche le migliaia di persone che non vogliono rinunciare al sogno di poterla contemplare un giorno con i propri occhi. Bisogna poi rilevare che mentre l’opinione pubblica attribuisce le violenze sul patrimonio archeologico all’iconoclastia retrograda di Daesh (è l’acronimo arabo di Isis, ndr), quelle subite da città come Aleppo sono considerate un danno collaterale della guerra e suscitano dunque meno scalpore. Ovviamente ciò corrisponde al vero per metà poiché le distruzioni di siti e monumenti storici imputabili al regime di Baschar al-Assad non sono solo l’esito dei bombardamenti, ma anche una pratica devastatrice consolidatasi ben prima del conflitto. Se durante questi quattro anni, una parte della popolazione siriana si è resa complice di saccheggi e traffico di reperti è colpa dei cattivi maestri».

A parlare così è Maurice Sartre, storico, professore emerito all’Università di Tour e direttore di Syria, rivista di archeologia, arte e storia pubblicata dall’Institut Français du Proche Orient. Sartre si trovava in Siria quando, nel luglio 2011 – a causa dell’attacco all’ambasciata di Francia a Damasco – si vide costretto a lasciare improvvisamente il paese. Infaticabile studioso di iscrizioni greche e latine della Siria, delle quali è ancora impegnato a realizzare un Corpus, ci racconta perché Palmira – città cosmopolita ante litteram – detiene, più di qualsiasi altro sito archeologico, segreti di antico splendore ma anche speranze di un futuro di democrazia e libertà.

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Palmira, la «sposa del deserto», è universalmente nota come «città carovaniera», denominazione che ha preso il sopravvento sui numerosi e significavi aspetti per cui dovrebbe essere conosciuta. Da cosa ha origine quest’appellativo?
È una definizione che si riferisce alla fase dell’occupazione romana, compresa tra il I e il IV secolo d.C. A quell’epoca risalgono, infatti, più di trenta iscrizioni – in greco e aramaico – che ricordano il ritorno delle carovane dalla Mesopotamia o Babilonia e ne descrivono le peripezie del viaggio. Malgrado queste testimonianze confermino che Palmira fu un’importante città carovaniera, è sbagliato pensare che i Palmireni fossero dei commercianti. La fortuna di Palmira risiede piuttosto nell’attitudine dei suoi abitanti ad attraversare il deserto, a fornire ai mercanti i mezzi di trasporto – i cammelli – e ad assicurar loro protezione. Fu anzi per queste ragioni che i Romani autorizzarono i Palmireni a mantenere le proprie milizie municipali, la cui efficacia nel pattugliare territori immensi che si estendevano fino all’Eufrate sarebbe stata difficilmente eguagliabile dall’esercito imperiale. Sappiamo inoltre che Palmira era circondata da caravanserragli, attraverso i quali, tuttavia, entravano in città solo le merci destinate al fabbisogno del popolo. Erano ancora una volta i Romani ad arricchirsi con i dazi imposti alla dogana.

A proposito di miti sviluppatisi attorno a Palmira, lei ha scritto – assieme a Annie Sartre-Fauriat – un libro su Zenobia: un ritratto controcorrente…
Zenobia è un personaggio epico ma non sappiamo molto di lei. Conosciamo delle leggende riportate nell’Historia Augusta, alla quale tutti i romanzieri e anche alcuni storici hanno attinto come se fosse un racconto veritiero. Io e Annie ci siamo basati, invece, su fonti storiche più attendibili, come il bizantino Zosimo e su documenti epigrafici e archeologici. Abbiamo voluto smentire, innanzitutto, due credenze unanimemente diffuse su Zenobia. La prima è quella secondo la quale fu regina di Palmira, affermazione facilmente contestabile, visto che non è mai esistito un regno di Palmira; il titolo di regina le deriva, piuttosto, per «assimilazione» al consorte Odenato, noto con l’epiteto di Re dei re; c’è poi la celebre leggenda che la vuole strenuo baluardo della resistenza a Roma, inesattezza ancor più grande. Zenobia, imperatrice romana in Oriente, lottò semmai contro un altro imperatore, Aureliano, allo scopo di conquistare il potere assoluto assieme al figlio Vallabato.
Le vicende che la riguardano, insomma, sono completamente diverse da quelle che il romanticismo occidentale ha costruito ad arte e il nazionalismo siriano ha contribuito a mistificare. Alcuni studiosi, influenzati dall’ideologia del partito Baath, fanno addirittura di Zenobia la leader di un Fronte di Liberazione Nazionale, la quale fomentò la ribellione contro i «colonizzatori». Come diceva il generale Moustafa Tlass – vecchio ministro della difesa di Hafez al-Assad e autore di una biografia su Zenobia – essa cercò di affrancare la Siria dall’orrida occupazione dei Romani, accusati da Tlass di crimini abominevoli. Tutte storie inventate, naturalmente. Un po’ come il cinema, che nel peplum Nel segno di Roma fa vestire i panni di Zenobia alla biondissima Anita Ekberg…

Le vestigia che sono giunte a noi in superbe condizioni di conservazione appartengono a monumenti edificati durante l’epoca romana. Ma Palmira fu anche una città greca.

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Come comprovato dagli scavi della missione tedesca, i quartieri romani coesistettero con quelli ellenistici, situati a sud del wadi (fiume, ndr) che attraversa la città. D’altra parte, nei territori ellenofoni dell’Impero, i Romani non imposero mai il modello del municipio o della colonia, favorendo invece lo sviluppo delle comunità greche. Dopo il 19 d.C., data dell’annessione a Roma, a Palmira è esplicitamente attestata una polis. Negli antichi centri di Damasco, Aleppo, Apamea e Lattakia abbiamo notizia di istituzioni tipiche delle città greche della Siria, come il demos e la gherousia e magistrati quali agoranomi e ginnasiarchi. Inoltre – anche se della maggior parte delle iscrizioni pubbliche possediamo la versione in aramaico – la lingua ufficiale, a Palmira, era il greco.

Oltre a una Palmira visibile rischiamo dunque di perderne una nascosta?
Della superficie sulla quale si staglia Palmira, solo il dieci o venti percento è stato scavato. La città più antica, menzionata nelle tavolette assire con il nome semitico di Tadmor già dal II millennio, è tutta da scoprire. Anche la città ellenistica – estesa almeno quanto quella romana e la cui pianta è stata realizzata dagli archeologi tedeschi sfruttando i dati delle prospezioni elettromagnetiche – è ancora da riportare alla luce. Persino della Palmira romana resta molto da esplorare, ad esempio i quartieri abitativi a nord della grande strada colonnata; e le necropoli, delle quali conosciamo, per ora, circa quattrocento tombe monumentali e ipogee. Senza dimenticare le epoche più tarde, cristiana e islamica. Il pericolo è che Daesh, che vende a caro prezzo «licenze» per scavi clandestini, comprometta per sempre le stratigrafie come si è già verificato nei siti di Dura Europos e Mari.

Un modo per capire la cultura composita dell’antica Palmira è analizzare il suo pantheon. Si direbbe che, contrariamente all’attualità, tutte le divinità fossero le benvenute.
Il pantheon di Palmira è il riflesso del suo popolamento ma anche della sua apertura al mondo. Vi troviamo il nocciolo religioso dell’Oasi, dèi altrimenti sconosciuti come Bôl – chiamato anche Bel per contaminazione con il dio della Mesopotamia – e i suoi accoliti Aglibôl, Iarhibôl e Malakbel. Poi, ci sono le divinità adorate dalle tribù nomadi del deserto come la guerriera Allat – assimilata ad Atena – e quelle della Siria sedentaria come Atargatis e Baalshamin, dio della tempesta e della fertilità; tra le divinità fenice sono attestate Astarte e Shadrapa. Non mancano, poi, gli dèi venuti dall’orizzonte della Mesopotamia, ad esempio Nabu, dio della scrittura. L’eredità sacra della Grecia è presente su un architrave, nel quale è raffigurato Herakles nudo con i suoi attributi classici clava e pelle di leone. Il culto imperiale veniva celebrato a Palmira come nel resto delle province. La città accolse, inoltre, una piccola comunità ebraica così come un nucleo precoce di cristiani. Si pensa, infine, che agli inizi del III secolo d.C., i manichei siano arrivati in Siria proprio tramite la porta di Palmira.

Il cosmopolitismo palmireno si riscontra anche in altri ambiti?
Sì, nell’architettura. Davanti al tempio di Bel, ad esempio, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un monumento greco o romano. Al suo interno però, si scopre una struttura pertinente piuttosto al culto semitico. La «grammatica» del decoro greco-romano influisce anche nell’iconografia dei bassorilievi, i quali mantengono allo stesso tempo una connotazione indigena. Penso a quei notabili che si fanno rappresentare in toga ma che si ritrovano poi, nelle celebrazioni religiose o nei monumenti funerari, vestiti secondo il costume dei Parti. Gli stessi notabili si fanno costruire case nello stile di Antiochia, dell’Asia Minore o della Grecia e le decorano con mosaici rievocanti miti classici – come la storia di Achille o Cassiopea – che non hanno alcun rapporto con le tradizioni locali.
Lo Stato Islamico occupa Palmira dal 21 maggio scorso. Non c’è, finora, notizia di distruzioni ma le bandiere del califfato sventolano sui frontoni dei templi e sulla scena del teatro, alimentando le nostre paure…
Palmira è la città che Daesh dovrebbe detestare di più al mondo, perché è un mélange di culture e tolleranza. Palmira non è solo unica, come d’altra parte ciascun frammento del nostro patrimonio, ma è preziosa per comprendere come civiltà molto differenti arrivino a coabitare e mescolarsi, e come gli individui non si sottomettano a una cultura dominante ma adottino piuttosto costumi dai quali sono affascinati, per necessità o incanto. Palmira è preziosa per l’umanità intera ma prima di tutto per i siriani, per i quali simboleggia l’emblema della bellezza, dell’intelligenza, della creatività e del contributo della Siria alla storia universale. Tutti i siriani – siano essi sunniti, sciiti, alawiti, cristiani o drusi – sono fieri di Palmira poiché grazie al senso di appartenenza a questo sito archeologico, hanno coscienza di aver dato al mondo qualcosa di irripetibile