‘ndrangheta e Cosa Nostra operavano insieme, si muovevano come una cosa sola, una “Cosa Unica” pronta a dare “il colpo di grazia” allo Stato. Un filone già emerso un anno fa nell’inchiesta Mammasantissima della Dda reggina che ha iniziato a tracciare il perimetro dell’organizzazione unica delle mafie che, a partire dai Settanta, avrebbe iniziato a strutturarsi, per meglio interloquire con gli altri sistemi di potere incontrati nella terra di mezzo incistata dalla massoneria.

Tessere che oggi si incastrano in un puzzle a tinte fosche che riscrive la trama di un pezzo di storia d’Italia. Erano gli anni Novanta, la “prima Repubblica” scricchiolava sotto i colpi di Tangentopoli, c’era il possibile avvento del Pci di Occhetto al potere che intimoriva le mafie e non solo. In allarme erano entrati militari e uomini dell’intelligence di estrazione piduista, legati all’area di Gladio, e vecchi arnesi di quella galassia nera che con loro spesso è andata a rimorchio. Progettavano di sostituire la vecchia, ormai inaffidabile, classe politica, con una di nuovo conio, pronta ad assecondare i compositi interessi di mafie, logge occulte, pezzi deviati dello Stato e della grande imprenditoria.

La nuova inchiesta della Dda di Reggio, dall’eloquente nome ‘ndrangheta stragista, ha disegnato il profilo criminale della tappa calabrese degli “attacchi continentali” allo Stato, quel giro d’Italia stragista che aveva colpito Firenze, Roma e Milano. In manette è finito Rocco Filippone, dell’omonima cosca di Melicucco, satellite dei Piromalli di Gioia Tauro, mentre a Giuseppe Graviano, capomafia del mandamento palermitano di Brancaccio, è stata notificata una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere Per gli inquirenti sono loro i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo, trucidati a Scilla il 18 gennaio 1994, e dei due agguati a danno di altri quattro appuntati, Vincenzo Pasqua e Salvo Ricciardo, rimasti illesi dopo l’attentato subito il 1 dicembre del 1993, e Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, feriti alla periferia sud di Reggio il 1 febbraio 1994.

“Si deve dare il colpo di grazia allo Stato”. Sarebbe questo l’ordine che Graviano avrebbe dato a Gaspare Spatuzza, all’epoca non ancora pentito, ai tavolini del bar Doney di Roma. Ma quel mandato di morte non vedeva impegnati solo i siciliani. Perché, contrariamente a quanto sinora noto, le ‘ndrine avevano detto sì alla profferta di partecipare alla strategia stragista. A tessere le fila erano i grandi casati di ‘ndrangheta: Mimmo Lo Giudice, oggi deceduto, elemento apicale dei De Stefano-Libri-Tegano di Reggio, e Rocco Filippone. Sono stati loro a forgiare e formare, Giuseppe Calabrò, nipote di Filippone, e Mino Villani, all’epoca minorenne, oggi pentito.

A firmare le tre azioni sarebbe stata la stessa arma, una mitraglietta Beretta che farebbe parte di quelle partite di armi senza numero di serie, finite in mano a frange nere dell’eversione, pezzi deviati dei servizi e picciotteria. Armi che poi avrebbero firmato delitti diversi e apparentemente slegati fra loro, come quelli commessi dalla banda della Uno bianca. Per arrivarci, i magistrati hanno ascoltato centinaia di boss, pentiti e non, hanno fatto sopralluoghi, cercato riscontri, incrociato informative.

E fra le pieghe di indagini del passato, più di un’indicazione era già affiorata.Oggi però, tutti quegli elementi sparsi trovano unità in un quadro inquietante che tiene insieme le mafie, pezzi deviati dei servizi, ambienti piduisti e universo neofascista. Un piano che in Calabria è stato oggetto di almeno tre riunioni: la prima al villaggio turistico Sayonara di Nicotera, controllato dal clan Mancuso di Limbadi, legato a doppio filo alla signoria dei Piromalli, le altre due a Oppido Mamertina. Al tavolo c’erano i massimi esponenti della ‘ndrangheta calabrese e gli emissari siciliani di Totò Riina. Tutti responsabili – riportano i magistrati reggini – di aver tentato di sovvertire l’ordine repubblicano in Italia.