Di tutte le vicende che imperversano a Washington la più emblematica di questo convulso avvio dell’era Trump è il cosiddetto «russiagate». Dopo mesi di voci e illazioni, la questione delle ingerenze di hacker russi nella campagna elettorale (principalmente l’acquisizione e la diffusione di email riservate di John Podesta, direttore della campagna Clinton)  è infine giunta in aula parlamentare con la testimonianza di James Comey, direttore dell’Fbi e del capo della Nsa Mike Rogers. Oltre che l’indagine in corso, Comey ha confermato due dati «pesanti»: per l’Fbi l’interferenza c’è stata, ed ha avuto l’intento di favorire l’elezione di Donald Trump. Elementi che non confermano un eventuale coordinamento fra Mosca e la campagna Trump ma che certo non ne favoriscono l’immagine, specie alla luce delle ombre che gravano sui contatti russi di esponenti di spicco della squadra Trump fra cui l’advisor Paul Manafort, l’ex ministro della Difesa in pectore (dimissionato) Michael Flynn e il ministro della Giustizia Jeff Sessions.

La formalizzazione dell’indagine ha ora posto una «grande nuvola grigia» sulla testa del presidente come ha ammesso lo stesso Devin Nunez, il repubblicano che presiede la commissione d’inchiesta.

L’implicazione è che la questione  possa trasformarsi se non nel Watergate di Trump allora nell’equivalente dell’indagine Whitewater sugli illeciti finanziari di Bill Clinton o quella sui fatti di Bengasi usata dai repubblicani per danneggiare Hillary. In altre parole una inchiesta «perenne» destinata, se pur non dovesse avere un esito definitivo, a mantenere sulla difensiva un’amministrazione che sembra fare di tutto per invitare i sospetti (ieri è stato annunciato che il segretario di stato Rex Tillerson, ex amministratore della Exxon noto per i rapporti cordiali con Putin, ad aprile salterà il summit Nato a favore di incontri al vertice a Mosca.)

Mentre è ancora ignota la sua eventuale portata legale e politica, la  vicenda è paradigmatica del new normal dell’era Trump. L’udienza in senato lunedì ad esempio si è trasformata in surreale botta e risposta fra il direttore dell’Fbi ed il presidente in persona, autore di un caratteristico commentario in tempo reale. A un certo punto Trump che seguiva a diretta dallo studio ovale  ha twittato: «Nsa ed Fbi negano influenza russa sulle elezioni». Il democratico Jim Himes ha quindi riletto il tweet in aula dove è stato prontamente smentito da Comey, come anche le dichiarazioni sulle intercettazioni «ordinate da Obama».

L’udienza è servita così a rafforzare l’immagine di un presidente in aperto contrasto coi propri servizi, e in conflitto con le istituzioni a loro volta del tutto impreparate a contenere l’intrusione di un corpo estraneo votato all’offensiva simultanea  su tutti i fronti: congresso e partiti (su riforma sanitaria), giudici (sul muslim ban, nuovamente bloccato), minoranze (su immigrazione), gli stessi ministeri (decurtati e sorvegliati da commissari politici.) Una mutazione «genetica» vieppiù appariscente nei rapporti con la stampa. Appena conclusa l’udienza c’è stato l’ennesimo scontro fra giornalisti e Sean Spicer in una sala stampa trasformata in reality quotidiano. Il portavoce ufficiale si è sperticato per difendere le contraddizioni stratificate del presidente, il quale a sua volta  giustifica le dichiarazioni più clamorose (quella della collusione Obama/servizi britannici ad esempio) ribadendo di averlo «sentito dire alla Fox».

Mentre Washington era infiammata dagli eventi Trump ha riportato la sua veemente diatriba «post-fattuale» nel cuore di tenebra del trumpismo sudista . Una folla lo ha accolto a Louisville, Kentucky con il solito tifo catartico da stadio nel mondo parallelo e alternativo dove il trumpismo attinge la propria forza. L’immagine che completa un quadro sempre più nitidamente  proto-fascista con una  piazza perennemente infiammata contro «élite»,  stranieri, intellettuali e classe politica ritualmente dileggiate.
E dietro la facciata del riscatto dei lavoratori diseredati dalla globalizzazione, il progetto di «decostruzione» di scienza, cultura, welfare e immigrati coordinato dal direttorio alt-right di Steve Bannon che attinge al rancore bianco, all’impulso di rivalsa e la mentalità dell’assedio delle classi esautorate e alle vaste riserve di ignoranza dell’hinterland.

Su questo sfondo l’affaire russo, su cui molti democratici puntano per imbastire un possibile impeachment e che Trump denuncia come una caccia alle streghe e persecuzione «maccartista» orchestrata dagli avversari democratici, potrebbe finire per costituire una manovra depistante, che distrae da un’eversione storica, destinata ad avere presto gravi conseguenze globali.