Col passare del tempo appare sempre più evidente la doppia ipoteca ideologica che grava sul processo di costruzione europea. Se come propria bandiera la Ue avesse preso a prestito l’aquila bicipite, che fu degli armeni e poi degli Asburgo, in questa nuova versione le due teste rappresenterebbero l’ideologia neo-liberale e quella occidentalista. In una fase di acuta crisi economica e sociale le voci critiche si sono per lo più appuntate su una delle due ipoteche, quella austeritaria, finendo per ignorare totalmente la seconda.

La sinistra continentale, già priva di bussole e di sponde con la crisi dell’ideale socialista in tutte le sue declinazioni, e ultimamente abbagliata dal miraggio obamiano, ha rinunciato ad esercitare una funzione critica nei confronti della cogenza a prescindere di una fissa, imperitura e necessaria “solidarietà occidentale”. Eppure, in nome dell’ideologia occidentalista, oggi l’intero vecchio continente si trova a dover fare i conti con una crisi dei rapporti commerciali con la Russia che già grava, è notizia di questi giorni, su di un apparato produttivo di per sé esangue; con una crisi umanitaria epocale sulle sponde del Mediterraneo; e con una crisi geopolitica dalle conseguenze incalcolabili in un’area strategica che va dall’(ex) Iraq alla (ex) Libia.

Nell’immediato dopoguerra, messe rapidamente da parte le generose tensioni “terzaforziste”, l’Europa realmente in fieri si rivelò e dispiegò come Europa atlantica. Certo, fattori endogeni spingevano verso l’unificazione. L’anelito di pace continentale, dopo secoli di guerre fratricide, costituì una molla potente per l’integrazione. Non a caso, quando si trattò di iniziare a far camminare questa idea di pace sui concreti piedi delle scelte macro-economiche, si scelse di integrare la produzione delle industrie del carbone e dell’acciaio, industrie di guerra per eccellenza nell’età post-rivoluzione industriale.
E non a caso si scelse, memori di quanto accaduto a partire dalla guerra franco-prussiana, e poi su su passando attraverso due conflitti mondiali, di ridare protagonismo economico (e militare) alla Germania solo a patto che il gigante continentale accettasse di integrarsi in un progetto più vasto. Ma la spinta più potente all’unificazione venne, senza dubbio, dalla irruzione sovietica sullo scenario mondiale, in un ruolo di assoluta forza quale derivava all’Urss dalla vittoria nella seconda guerra mondiale. Si trattava di opporre al “Paese del socialismo realizzato” una forza economica, sociale e militare. E un modello di sviluppo economico e di inclusione sociale, come teorizzato dai tecnici keynesiani, figli dell’esperienza del New Deal, sbarcati sul vecchio continente a seguito delle armate alleate e preposti allo sviluppo del Piano Marshall.

Ovviamente, nessuno pensava, in quei primi anni di rigido conflitto bipolare, di poter fare a meno della guida statunitense nella lotta contro “l’orso”, da russo fattosi sovietico. Fu solo con la distensione, a partire dagli anni Sessanta, che all’interno della sinistra cominciarono a diffondersi voci sulla necessità di costruire un’Europa diversa, autonoma dai due blocchi contrapposti sia economicamente che politicamente. Voci che, nate minoritarie in seno ai partiti socialisti occidentali, conquistarono fino agli anni Ottanta posizioni vieppiù influenti, trovando una sponda importante, ancorché contraddittoria, nell’eurocomunismo (soprattutto nel Pci). In maniera alquanto paradossale, queste voci cominciarono a farsi roche quando di esse più ci sarebbe stato bisogno, e cioè con la fine della guerra fredda, la caduta della “cortina di ferro” e la dissoluzione dell’Urss.
Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, e con grado crescente di miopia negli ultimi quindici anni, i governi europei hanno assistito afoni – se non quando hanno entusiasticamente incoraggiato – alla politica statunitense di destabilizzazione e di attacco allo Stato-nazione nel Medio oriente e nel Mediterraneo. Dalla guerra contro l’Iraq, contro la Siria e contro la Libia, a seconda dei casi apertamente o copertamente realizzate dalla “comunità occidentale”, sono sorte crisi umanitarie a non finire, oltre che un sedicente “califfato” che destabilizza tutta l’area di frontiera, mentre regressi innegabili si registrano nei paesi ex-coloniali proprio sui temi in teoria cari all’”Occidente”, in termini di diritti democratici e civili – di diffusione, insomma, dello spirito illuminista.

Dalla politica di accerchiamento militare contro la Russia, pervicacemente sostenuta da Washington e pedissequamente accettata dai governi europei, ne deriva ora una crisi dei rapporti commerciali con Mosca, della quale fa le spese l’intero apparato produttivo continentale, a partire dal suo centro, la locomotiva tedesca. Così, gli effetti delle due ideologie – quella neo-liberale, che prevede l’esistenza appunto di una locomotiva forte che virtuosamente trainerà i vagoncini che non siano neghittosi alle “riforme”, e quella occidentalista – vengono a saldarsi nel peggior momento. E la necessità di una critica della costruzione ideologica europea, nella sua doppia variante, si fa sempre più sentire.