In una presidenza che sembra essere un’infinita campagna elettorale i rapporti tra Casa bianca, alleati e oppositori sono in continuo riassestamento. Trump incassa vittorie e sconfitte in egual misura.

Decisamente una vittoria la decisione della Corte suprema che, come ha annunciato, esaminerà il travel ban di Donald Trump, per decidere se (come stabilito da due diversi tribunali di appello) è incostituzionale limitare gli ingressi dei cittadini da sei paesi a maggioranza musulmana (Iran, Somalia, Sudan, Yemen, Siria e Libia) per 90 giorni e, sempre per 90 giorni, fermare il programma di accoglienza dei rifugiati.

Intanto i giudici hanno parzialmente ripristinato l’applicazione del bando a coloro che non hanno legami con persone o con entità negli Stati uniti.

Una decisione estremamente importante che riguarda molto l’applicazione del potere presidenziale che, a seconda della decisione della Corte suprema, ne uscirà rafforzato o ridimensionato e che influenzerà l’applicazione dei successivi ordini esecutivi.

Le associazioni di legali che operano in difesa dei diritti civili stanno già affilando le armi: «Ci vediamo in corte», ha twittato la Aclu (American Civil Liberties Union) parafrasando proprio un tweet di Trump a seguito di una delle sconfitte inflittagli dalla corte di appello di San Francisco sul Muslim Ban.

Mezza sconfitta invece sul Trumpcare, la legge sulla sanità che dovrebbe sostituire l’Obamacare, passata alla camera per 4 voti, riscritta dal senato e che i senatori repubblicani dovrebbero votare questa settimana.

Trump si è detto fiducioso sulla buona riuscita del voto ma ben cinque senatori del Gop hanno già detto di non sostenere la legge così com’è stata riscritta, senza ulteriori modifiche. Queste defezioni da sole compromettono l’esito del voto.

Il più determinato nell’opposizione al Trumpcare è Dean Heller, senatore del Nevada, Stato che ha ampliato la copertura statale del Medicaid sotto l’Obamacare e che ha molto da perdere dalla sua abrogazione.

Guai anche sul fronte degli esteri a causa delle divergenze tra il segretario di Stato, Rex Tillerson, Trump ed i suoi consiglieri. Il tema è quello del Golfo dove Tillerson cerca di mediare tra le varie parti mentre Trump, prima su Twitter, poi in una conferenza stampa, ha appoggiato apertamente i sauditi definendo il Qatar un «finanziatore del terrorismo», proprio ciò che il Dipartimento di Stato stava mettendo in dubbio.

Quando l’ex direttore esecutivo di Exxon Mobil è arrivato a Washington per diventare segretario di Stato, pareva che la sua forza fossero due asset preziosi: esperienza nel gestire una compagnia globale e profonde relazioni tra Medio Oriente e Russia con cui ha chiuso trattative importanti.

Purtroppo la prima opportunità di usare tale esperienza, come mediatore tra Qatar e sauditi, ha messo Tillerson esattamente dove un segretario di Stato non vuole essere: in pubblico disaccordo con il presidente che lo ha nominato.

Alla Casa bianca alcuni dicono che la discordia sul Qatar è parte di una lotta più ampia su chi sia il vero responsabile della politica in Medio Oriente, se Tillerson o Jared Kushner, il genero del presidente.

Per altri invece è semplicemente il sintomo di un Dipartimento di Stato disfunzionale che, sotto l’incerta leadership di Tillerson, non ha ancora nominato le cariche politiche necessarie per il funzionamento del proprio gabinetto.

Queste alterne vicende non hanno frenato Trump dall’attaccare, via Twitter, gli opponenti democratici, prendendosela in particolare con Obama: secondo Trump, alla fine del suo mandato non ha reso pubbliche le prove in suo possesso sul Russiagate perché, convinto di una vittoria della «corrotta Hillary», non voleva rovinare i piani smuovendo le acque.