Quando il 9 luglio di dieci anni fa i 15 giudici della Corte Internazionale di Giustizia comunicarono il loro parere: «Contrario al diritto internazionale», i palestinesi esultarono e chiesero sanzioni internazionali contro Israele per la costruzione del Muro di Separazione nella Cisgiordania occupata (nella foto reuters), fatto di reticolati alternati da muri di cemento alti fino a otto metri, con telecamere e avanzati sistemi di allarme elettronico.

E avevano buoni motivi per esultare perchè quella opinione aveva il sapore di una sentenza storica. Il presidente palestinese Yasser Arafat, che sarebbe morto qualche mese dopo per una misteriosa malattia, si appellò alla comunità internazionale affinchè fosse fermata la costruzione del muro, a quel tempo ancora nella sua fase iniziale.
A giudizio di Israele, che ha sempre parlato di una «barriera di sicurezza» e non di muro, invece la presa di posizione della Corte Internazionale di Giustizia, che è il principale organo giurisdizionale dell’Onu, rappresentava una grave ingiustizia verso i cittadini dello Stato ebraico minacciati dagli attentati.

Oltre alle conclusioni, nel parere legale espresso dieci anni fa dai giudici internazionali c’è un paragrafo chiave. Si tratta del paragrafo 137, in cui si afferma che «La costruzione del Muro è da parte di Israele una violazione di diversi dei propri obblighi nei campi del rispetto dell’applicazione della legge umanitaria internazionale e degli strumenti dei diritti umani». Lo stesso paragrafo smonta quella che da sempre è l’argomentazione principale di Israele: la barriera come un salva vita anti-kamikaze. La Corte si disse non convinta «del fatto che il tracciato del Muro sia stato scelto per ragioni di sicurezza» e affermò di «temere» che il progetto in atto potesse non essere una misura provvisoria, come sosteneva Tel Aviv, e portare a delle annessioni di territori palestinesi. I giudici internazionali chiesero anche che Israele provvedesse immediatamente al risarcimento dei danni subiti dai palestinesi a causa della costruzione del Muro, perchè aveva violato la Convenzione di Ginevra del 1949 sui diritti dei civili in tempi di guerra.

Israele respinse tutto al mittente, accusando la Corte di miopia per avere ignorato completamente quella che a suo giudizio era l’essenza stessa del problema e la vera ragione della costruzione della barriera: il «terrorismo palestinese».

L’allora ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom volò a Washington per chiedere che gli Usa impedissero che il parere della Corte arrivasse al voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite. Aiuto che Israele ottenne, e non solo dagli Usa. Il successivo insabbiamento diplomatico impedì che il parere della Corte dell’Aja potesse cambiare qualcosa sul terreno. E dieci anni dopo Israele non solo ha completato quel Muro lungo oltre 700 km su un percorso palesemente politico ma pensa ora di costruirne un altro, lo ha di fatto annunciato il premier Netanyahu qualche giorno fa, da Eilat fino al Golan, lungo la Valle del Giordano.