La costruzione europea dei diritti si è venuta formando essenzialmente – se non esclusivamente – grazie ai giudici. Nel campo dei diritti fondamentali, almeno fino al Trattato di Maastricht, la tutela giurisdizionale è stata definita dalla Corte di Giustizia in sostanziale assenza di ogni appiglio testuale e in mancanza di ogni parametro di natura costituzionale. Ciò non ha impedito che una giurisprudenza più che ventennale riuscisse a definire un vero e proprio corpus di regole di diritto. Proprio quelle regole che, tradotte in principi, si sono poste alla base della successiva definizione dei testi politici di valore costituzionale: nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione in primo luogo.

Eppure, proprio quando sembrava che finalmente tutti i diritti inscritti nella Carta avessero ottenuto il massimo del riconoscimento da parte degli Stati (e dunque della politica) grazie al Trattato di Lisbona, che ha assegnato ad essi il medesimo valore giuridico dei Trattati, ecco che è cominciata la rotta del diritto, che ha dovuto cedere il passo ai sacrifici imposti dalla congiuntura economica avversa. Con realismo, si deve ormai prendere atto dell’abbandono dei diritti (di quelli sociali in particolare) da parte delle istituzioni europee, preoccupate esclusivamente del risanamento dei bilanci e dimentichi di quel che pure è scritto nel Preambolo della Carta: «l’Unione pone la persona al centro della sua azione»; e poi ancora: essa «si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà». Principi e parole che è difficile scorgere tra le priorità imposte alle politiche europee, ma anche a quelle nazionali, negli ultimi anni; politiche semmai indirizzate a limitare la portata dei diritti, ovvero a subordinane l’estensione alle ragioni degli equilibri finanziari.

Come hanno reagito i giudici – fautori del cambiamento di ieri – alla crisi economica, ma anche politica degli ultimi anni?

È evidente che non si può generalizzare, né è opportuno sottovalutare le decisioni che ancora riescono ad assicurare ai diritti una garanzia a volte maggiore in Europa che non in ambito nazionale. Basta qui richiamare la recente decisione su Google, del 13 maggio, cha ha imposto il rispetto di diritti fondamentali previsti dalla Carta europea, i quali – ha scritto significativamente la Corte – «prevalgono sull’interesse economico degli operatori dei motori di ricerca». Per non dire della decisione del 26 novembre sulla contrarietà al diritto dell’Unione del rinnovo illimitato dei contratti a tempo determinato nella scuola. Un ruolo di garanzia dei diritti, dunque, la Corte di Giustizia riesce ancora a svolgerlo, tuttavia non può negarsi che la giurisprudenza europea sembra aver smarrito la sua forza propulsiva, mostrando sempre più vistose incertezze, arretrando in molti settori, soprattutto in ambito economico e sociale. Sul fronte più esposto, quello del lavoro, si vanno cumulando le decisioni che escludono l’applicabilità della Carta alle materie pur da essa disciplinate, facendo prevalere, al loro posto, gli altri «principi generali» del diritto comunitario – quello d’impresa, quello di stabilimento, quelli collegati al libero commercio, quelli legati ai meccanismi di stabilità – di cui la Corte si ritiene pure garante. Si moltiplicano i casi in cui quest’opera di bilanciamento (che è in qualche misura necessaria) si è risolta in una netta inversione delle priorità, facendo prevalere gli interessi e le libertà commerciali sui diritti garantiti dalla Carta. Dal 2007 – l’anno d’inizio della crisi – un susseguirsi di sentenze hanno fatto emergere un chiaro orientamento regressivo. All’inizio ci fu la sentenza Viking, la quale affermò che, sebbene il diritto di sciopero e di azioni collettive fosse previsto all’articolo 28 della Carta, cionondimeno dovesse prevalere il diritto di stabilimento previsto dall’articolo 43 del Tce (il trattato che istituisce la Comunità Europea). A molti commentatori quella sentenza era apparsa un forte arretramento in materia di garanzie dei lavoratori e un colpo alla Carta. Qualcuno ritenne si trattasse di un abbaglio, di un momento di sbandamento che non avrebbe inficiato né il valore della Carta, né la sensibilità della Corte al tema dei diritti fondamentali. Ma non si fece neppure in tempo a smettere di scrivere e di auspicare un ritorno alla strategia dei diritti, che una serie continua di sentenze lasciò tutti senza fiato. Pochi mesi dopo la Viking, la Laval, l’anno successivo la Rüffert, poi la Commissione contro il Granducato di Lussemburgo, poi contro la Repubblica Federale di Germania, sino a giungere alla più recente sentenza Pringle. Tutti casi diversi s’intende, ma identica è stata la tecnica utilizzata per abbandonare una frontiera divenuta troppo esposta, quella frontiera che aveva in altri casi, in un diverso clima culturale, politico ed economico, portato la Corte a far prevalere le garanzie dei diritti fondamentali. Il meccanismo reiterato nelle decisioni richiamate – e altre se ne potrebbero indicare – appare significativo: non si nega il valore normativo delle pretese (infatti, pressoché tutte le decisioni in materia di diritti richiamano ormai la Carta ovvero i precedenti giurisprudenziali che hanno enucleato i vari diritti), ma queste vengono liberamente bilanciate – in base a un indeterminato principio di proporzionalità – con gli altri principi fondamentali della Comunità sanciti nelle tante norme dei Trattati. Tutte norme collocate sullo stesso piano. Nel gioco del libero bilanciamento dei giudici rientrano così, su un piano di parità formale, i diritti sociali, le libertà economiche, le misure restrittive di natura finanziaria e di risanamento.

Non credo possa stupire più di tanto se – perduto il loro statuto privilegiato – siano i diritti fondamentali (quelli sociali in primo luogo) a cedere il passo di fronte agli altri interessi costituiti entro il sistema europeo in crisi.

In quest’ultima fase la giurisprudenza appare dunque pericolosamente oscillante, alternandosi decisioni di segno diverso. Se si vuole andare però alla radice del problema non basta denunciare la crisi della tutela per via giudiziaria, né si può sperare che siano i giudici a trovare una via d’uscita. Per cercare una soluzione alla crisi occorre scrutare da un’altra parte, bisogna guardare alla politica.

Qualora dovesse proseguire l’attuale politica economica, propensa al sacrificio delle persone in nome delle libertà di mercato, dominata dai meccanismi di equilibrio dei bilanci pubblici che la crisi economica e l’ideologia neoliberista dominante hanno imposto, ai diritti fondamentali sarà riservato un infelice destino d’oblio.

Se non si vuole abbandonare l’idea di un Europa dei diritti la via da percorrere deve essere un’altra. Diventa necessario puntare su una diversa politica europea che, in nome della costituzione e del costituzionalismo moderno europeo, riaffermi la centralità della persona. La superiorità dei diritti sui poteri (anche economici) è un lascito del costituzionalismo moderno, che può rappresentare anche l’inizio di una nuova stagione per estendere all’ordinamento dell’Unione le conquiste di civiltà dei popoli europei. Certo per ottenere questo obiettivo bisognerebbe aver voglia di cambiare lo stato di cose presenti, mutare radicalmente le politiche economiche, combattere le ideologie oggi prevalenti. Si dovrebbero soprattutto trovare dei soggetti in grado di rappresentare una Europa diversa da quella esistente. La strada appare stretta, ma non rimane molto tempo se si vuole arrestare il declino dei diritti in Europa.