«Non è in contrasto con la Costituzione la scelta di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita, ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino». La Corte costituzionale ha salvato la legge Merlin, in vigore da 61 anni, affrontando per la prima volta la questione della sua costituzionalità. Secondo la tesi delle difese di Tarantini e Verdoscia, imputati in corte d’appello a Bari, la possibilità di applicare i reati di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione anche a chi la esercita volontariamente – nel caso specifico, le «escort» accompagnate nelle case di Berlusconi – violerebbe il principio di legalità penale, per il quale non devono essere puniti i fatti non socialmente pericolosi. La Consulta ha deciso invece che «il reato di favoreggiamento della prostituzione non contrasta con il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale».
In attesa delle motivazioni, il comunicato della Corte informa che i ricorsi sono stati ritenuti ammissibili ma «non fondati». Il difensore di Tarantini, avvocato Quaranta, ha detto che «vedremo se la Consulta rimetterà al giudice di merito la valutazione delle specificità della prostituzione volontaria». Che è quello che aveva suggerito l’avvocatura dello stato che – a nome di palazzo Chigi e dunque in contrasto con Salvini che vorrebbe riaprire le case chiuse – aveva chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso e di demandare al giudice di merito un’applicazione «evolutiva» della Merlin. Soddisfazione per la decisione della Consulta hanno espresso tanto la Rete per la parità e il Comitato per i diritti civili delle prostitute quanto l’associazione papa Giovanni XXIII e la senatrice Binetti.