Saranno tre settimane da raccontare quelle che partiranno il prossimo 7 gennaio con la prima seduta dell’aula del senato dedicata alla discussione della nuova legge elettorale, per concludersi il 29 dello stesso mese con, assai probabilmente, la prima convocazione delle camere in seduta comune allargata ai delegati regionali per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Matteo Renzi vorrebbe portare a casa il sì del senato all’Italicum in anticipo rispetto al primo scrutinio per il Quirinale. Addirittura punterebbe al bis, visto che l’8 gennaio comincia in aula alla camera la seconda lettura del disegno di legge di revisione costituzionale: chiudere anche questo passaggio prima di aprire le danze per il Colle lo aiuterebbe assai. Ma è improbabile che ci riesca.
Sarà, ancora una volta, una corsa contro il tempo. Con il corollario già visto di forzature e strappi a regolamento e prassi per compiacere la tabella di marcia di palazzo Chigi. Tra tre giorni, mercoledì sera, Giorgio Napolitano confermerà agli italiani – diretta tv a reti unificate – le sue dimissioni «imminenti». Il 14 gennaio, il giorno dopo la conclusione ufficiale del semestre italiano di presidenza europea, le dimissioni dovrebbero essere effettivamente presentate con una comunicazione ai presidenti di senato e camera. Da quel momento la Costituzione, articolo 86 secondo comma, concede 15 giorni di tempo alla presidente della camera per convocare la prima seduta dei grandi elettori.

In questo campo i precedenti sono importanti e ce ne sono tre ai quali si può ricorrere: le dimissioni dei presidenti Segni, Leone e Cossiga (anche Pertini e Scalfaro si sono dimessi, ma solo dopo che era già stato scelto il successore). Nel 1964 la seduta fu convocata dieci giorni dopo le dimissioni ufficiali di Segni (6-16 dicembre). Nel 1978 tra le dimissioni di Leone e il primo scrutinio passarono 14 giorni (15-29 giugno). Nel 1992 tra le dimissioni di Cossiga e il primo scrutinio trascorsero tutti i 15 giorni previsti come intervallo massimo dalla Costituzione (28 aprile-13 maggio). Il precedente al quale ci si può richiamare adesso, un caso cioè di dimissioni del capo dello stato ampiamente annunciate e anticipate ai presidenti dei due rami del parlamento, è quello del 1964, quando la convocazione del parlamento in seduta comune allargata fu la più rapida. Ma oggi anche tre o quattro giorni in più potrebbero essere decisivi per la riuscita del piano di Renzi.

Quanto all’Italicum, il governo può sperare di farlo approvare dal senato nel giro delle tre fatidiche settimane. Malgrado il testo di legge che andrà in discussione dal pomeriggio di mercoledì 7 gennaio sia ancora «grezzo»: è lo stesso approvato a marzo dalla camera, senza le modifiche decise nell’ultima versione del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Vanno ancora esaminati tutti gli emendamenti, e ce ne sono molti della maggioranza e del governo perché la sede referente in commissione è stata completamente saltata, eppure il presidente Grasso ha già dimostrato di saper stroncare l’ostruzionismo con la tecnica del «canguro» che fa decadere migliaia di emendamenti in un colpo solo. Diverso il discorso per la riforma costituzionale, che è un disegno di legge più complesso e che nel precedente passaggio nell’aula del senato ha richiesto un mese di faticoso lavoro. Il regolamento della camera, poi, non consente letture «creative» da parte della presidenza ed esclude l’applicazione del «canguro» alle leggi di revisione costituzionale.

Comunque è certo che Renzi proverà a presentarsi al primo appuntamento con i grandi elettori avendo già segnato questi due successi, per quanto provvisori visto che le due leggi dovranno passare nell’altro ramo del parlamento. Del resto Napolitano legando le sue dimissioni alla conclusione formale del semestre, il 13 gennaio del discorso del presidente del Consiglio italiano a Strasburgo, e non a quella sostanziale del 31 dicembre, gli ha già regalato due settimane di vantaggio, per la corsa.