«Credo che con le elezioni la sentenza della Corte costituzionale non c’entri nulla», parola di Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd. Non potrebbe dire altro e infatti il leit motiv viene ripetuto dall’intero stato maggiore renziano. Però non è vero. La minaccia pendente di una rotta nel referendum sull’articolo 18 avrebbe costituito un argomento potente a favore delle urne prima dell’estate. Comunque vada a finire con gli altri due referendum, la mina principale è disinnescata.

Non significa che la sentenza sia solo «uno schiaffo mascherato» a Matteo Renzi, come argomentavano in molti ieri. Il rischio di una ennesima ed esiziale spaccatura nel Pd era ben presente allo stato maggiore del Nazareno. Almeno da quel punto di vista la decisione della Consulta è stata salutata davvero con un sospiro di sollievo. Non a caso mentre la Cgil e Sinistra italiana, da Stefano Fassina a Loredana De Petris, chiedono che il governo fissi al più presto la data del referendum, la sinistra Pd, a partire da Pier Luigi Bersani, glissa sul punto e chiede invece al Parlamento di «lavorare» anche sull’articolo 18.

La consapevolezza di aver probabilmente evitato una nuova guerra civile interna è però per Renzi la sola nota positiva. Per quanto riguarda il voto è un altro paio di maniche. L’obiettivo dell’ex premier non è cambiato di una virgola: elezioni entro giugno. Il tam tam su aprile serve solo a rendere possibile la corsa alle urne per la vera data fissata dal segretario del Pd: l’11 giugno, ma se proprio necessario anche più tardi purché prima dell’estate. Questa esigenza è strettamente collegata a un’altra, quella di far fare al governo Gentiloni il meno possibile.

Proprio questo obiettivo, esplicitato senza mezzi termini e senza vergogna dal presidente del partito Matteo Orfini, diventa ogni giorno più difficile. Da questo punto di vista, l’ammissione del referendum sui voucher complicherà ulteriormente la mission impossible di Renzi. E’ fuori dubbio che governo e maggioranza cercheranno di aggirare le urne referendarie riformando i voucher. Solo che un ritocco superficiale non basterebbe. Sarà infatti ancora la Corte a dover decidere se, dopo la revisione, sono o no venute meno le ragioni del quesito referendario. Ma questo è ancora il meno. Il punto dolente è che il Jobs Act non funziona, e rimetterci davvero le mani appare inevitabile. E’ Bersani a ricordare che «il governo ha tante cose da fare: le banche, il Jobs Act, l’immigrazione, gli investimenti. Ha tanti problemi da risolvere. Poi c’è la legge elettorale».

Non si tratta di un parere circoscritto alla dissidenza Pd. L’intero establishment di potere, dai vertici istituzionali a quelli aziendali passando per il grosso dell’ informazione, diventa di giorno in giorno più convinto che il governo debba fare il contrario di quanto suggerito da Orfini: debba cioè darsi da fare su parecchi fronti. Tra i renziani di stretta osservanza la pressione sul governo perché non si limiti alla funzione di traghetto, condannato ad arrivare in porto quanto prima, è interpretata come ostilità al capo. In realtà l’idea di galleggiare per mesi in una fase così delicata rasenta l’assurdo, senza bisogno di essere anti-renziani per pensarlo.

Alle urgenze elencate da Bersani, peraltro, se ne aggiunge una che potrebbe rivelarsi quella decisiva, la situazione europea e i rapporti tra Ue e Italia. Con quattro contenziosi aperti, sulla manovra aggiuntiva, sul decreto salva Mps, sull’immigrazione e dopo l’estate sulle clausole di salvaguardia, con tre Paesi europei come l’Olanda, la Francia e la Germania destinati ad affrontare nei prossimi mesi elezioni che incideranno sia sulla governance europea che sui rapporti tra Unione e Italia il sogno di un governo inerte e di elezioni a giugno potrebbe rivelarsi proibito.

Quanto alla legge elettorale, i bookmakers prevedono una sentenza che si limiterà a eliminare capilista bloccati e preferenze multiple da un lato e ballottaggio dall’altro. Sarebbe l’opzione migliore per chi ha fretta di votare ma anche così non ci sarebbe quell’armonizzazione tra le leggi per la Camera e per il Senato che per Mattarella è conditio sine qua non. Certo, i tempi per varare la nuova legge e votare in giugno ci sarebbero comunque. Ma davvero stretti.