Altro che orsi polari in estinzione, a voltare la pagina della storia dell’Artico e più in generale del pianeta Terra quest’estate sono state le cozze. Un intero bastimento carico di crostacei, molluschi e pesce, o per meglio dire una nave cargo: la Venta Maersk di proprietà della più grande compagnia di navi mercantili del mondo, la danese Maersk appunto, con appena 3.600 container di prodotti ittici impilati sul ponte. È stata la prima portacontainer ad aver percorso, a fine agosto, la North Sea route (Nsr), attraversando il circolo polare artico libero dai ghiacci.

L’ARTICO È IL NUOVO ELDORADO e il luogo del mondo più soggetto ai cambiamenti climatici, come descritto e spiegato da Marzio Mian nel suo splendido libro-inchiesta La battaglia per il Grande Nord (Neri Pozza, 2018). In effetti anche se da anni tra luglio a novembre la strada marittima oltre il circolo polare viene percorsa da petroliere e dalle navi gasiere, la Venta Maersk ha inaugurato solo quest’anno la via commerciale artica come una normale alternativa a quella mediterranea. Per andare da Vladivostok a San Pietroburgo ha impiegato dieci giorni in meno rispetto al percorso finora seguito dal 98% delle merci scambiate tra Russia, Asia, Nord Europa e Nord America attraverso il Canale di Suez.

E LA POLAR RUSH, la corsa all’oro bianco, non si ferma qui: oltre ai porti da costruire, alle riserve di pesce del mare di Barents (mentre il Mediterraneo invaso dalle microplastiche si va desertificando), al petrolio e al gas siberiano già trivellati e da trivellare, ci sono miniere nickel, di rame, di cobalto. Quindi l’industria degli armamenti, essendo il circolo polare una delle zone più militarizzate e nucleari della Terra. E infine c’è il business del last chance turism, gli «avventurieri» climatici delle crociere extralusso tipo Crystal – da 20 a 120 mila dollari a cuccetta – invogliati dalla pubblicità a «scoprire l’ecosistema più remoto al mondo a bordo di una piscina riscaldata e con un calice di Chardonnay in mano». Neanche tanto riscaldata.

È STATA UN’ESTATE TORRIDA, questa del 2018, oltre il 66° parallelo. A Rovaniemi, capitale della Lapponia finlandese, dove al solstizio si vede il sole a mezzanotte e si può amminare la più bella aurora boreale, quest’estate la temperatura ha toccato e superato i 30 gradi.

Il Wall Street Jornal a fine settembre ricordava che i volumi di carico delle navi petrolifere lungo la Nsr negli ultimi otto mesi sono aumentati dell’80% secondo la Nord University norvegese che monitora la rotta. La Russia ha appena terminato cinque nuove petroliere costruite apposta per varcare, senza navi rompighiaccio al seguito, le insidie del Mare di Kara nel profondo nord. E altrettanto sta progettando la cinese Cosco Shipping Lines.

ANCHE L’ITALIA È IN CORSA, e non solo per i meriti di esplorazione pionieristica e di ricerca scientifica all’avanguardia che la fanno sedere, al pari di Corea e Cina, tra i Paesi osservatori dell’Arctic Council, ma anche perché l’Eni è della partita avendo ottenuto da Trump licenza di esplorazione per quattro pozzi nel mare di Baufort abbandonati dalla Shell.

L’Artico è un iceberg in sè, sotto c’è il mostro del riscaldamento sul pianeta. E noi siamo sul Titanic, con pochissimo tempo per cambiare valzer. È ciò che dirrà il rapporto dell’Ipcc – l’Intergovernmental Panel on Climate Change, il gruppo di scienziati ed esperti di 195 Stati sotto l’egida Onu vincitore del Nobel per la pace 2007 – in discussione proprio in questi giorni – dall’1 al 5 ottobre – a Incheon in Corea del Sud.
Il report SR15, di cui a giugno è già circolata una bozza, è molto atteso perché si tratta del primo aggiornamento dei dati sul riscaldamento globale richiesto agli scienziati a tre anni dalla Cop21.

A PARIGI l’obiettivo-soglia per limitare i danni era restare a una temperatura media globale «ben al di sotto dei 2 gradi» rispetto ai livelli pre-industriali, meglio se a 1,5°C. Nel frattempo i modelli previsionali si sono affinati. Come spiega anche una ricerca statunitense pubblicata di recente da Nature se la liquefazione della calotta polare è iniziata in tempi recenti, solo vent’anni fa, la zona artica si riscalda tre volte più rapidamente del resto del mondo e la perdita totale del ghiaccio marino – cioè la prima estate free ice al Polo nord, temuto punto di non ritorno – sarebbe imminente. Non tutti sono così catastrofisti ma è un fatto che a metà settembre la Nasa ha mandato in orbita IceSat2, un satellite specifico per monitorare meglio lo stato della banchisa, incrociando tutti i dati, incluso i mutamenti della nuvolosità artica e le ripercussioni sulla corrente del Golfo.

GLI SCIENZIATI DELL’IPCC, dal canto loro, con uno sguardo planetario e l’occhio alle prescrizioni da dare ai governi sottoscrittori della Cop21, sono insieme più ottimisti e più pessimisti. Nel rapporto – ci riferisce Luca Iacoboni di Greenpeace, ong che partecipa come auditore al summit in Corea – da un lato si lancerà l’allarme sul possibile aumento della temperatura media del globo di 3 gradi e più entro fine secolo, a politiche invariate sull’uso delle fonti energetiche fossili, dall’altra si farà presente che siamo ancora in tempo per attestare il global warming a 1,5 gradi.

Fino alla notte di lunedì prossimo il presidente dell’Ipcc Hoesung Lee e il suo staff cercheranno di mediare, riga per riga, il summery for policymakers, la sintesi del rapporto che darà le istruzioni ai singoli Stati – anche i più restii come Usa, Cina e Australia – per rispettare gli obiettivi globali. Poi sarà la Cop24 di Katowice in Polonia, a dicembre, a fissare i nuovi obiettivi (Ndc) che dovranno essere nuovamente sottoscritti.

IL CLIMATOLOGO Bert Metz, ex presidente dell’Ipcc, che nei giorni scorsi è stato chiamato a convegno dal gruppo dei Verdi europei, sostiene che intanto l’Europa dovrebbe mettere al bando le auto alimentate da combustibili fossili entro il 2030. Ma di certo la Cina di Xi Jimping e gli Stati Uniti di Donald Trump dovrebbero smettere di rilanciare l’estrazione e l’utilizzo del carbone, che entro il 2030 per l’Ipcc dovrebbe coprire solo il 13% del fabbisogno energetico mondiale, riducendosi così di due terzi.

Certo, è difficile pensare che Trump – che intende trivellare persino l’Arctic national wildlife refuge, il parco naturale dove ancora scorrazzano i caribù – possa dare fastidio ai suoi amici texani. Così come è poco probabile che Vladimir Putin rinunci a estrarre le riserve di idrocarburi conservate nel sottosuolo della tundra siberiana che il Financial Times stima entro il 2050 per un valore al 40 per cento del Pil russo.

INSOMMA, IL TITANIC non ha ancora impattato contro l’iceberg del pianeta con la febbre, ma sembra che la rotta del capitalismo che ora chiamiamo Antropocene, sia proprio quellapassando per il Polo Nord. Con o senza caviale e Chardonnay.