Un elefante ucciso ogni 26 minuti. È il triste ritmo che segna il passo di una strage e che può portare dritti dritti all’estinzione della specie. I numeri parlano chiaro: negli ultimi 100 anni il 90% degli elefanti africani è stato ucciso, tanto che su una popolazione di 10 milioni nel 1930, si è passati ai 400 mila di oggi. Con una forte accelerazione negli ultimi anni: dati Iucn rivelano che almeno 110 mila esemplari africani siano stati uccisi tra il 2006-2015. Ed è proprio l’Iucn che ha recentemente classificato l’elefante africano come ad alto rischio.

L’AFRICAN ELEPHANT STATUS REPORT rileva che il più vasto declino della popolazione sia stato registrato negli ultimi 25 anni e i dati Cites Elephant Trade Information System rilevano che il volume di avorio commercializzato illegalmente nel mondo nel periodo 2011-2016 è il più alto mai osservato negli ultimi 30 anni. I dati sono stati presentati lo scorso 18 marzo in un incontro organizzato dall’International Fund fo Animal Welfare (Ifaw), Eliante, Green Impact, in collaborazione con La Lega italiana difesa animali e ambiente.

All’evento hanno partecipato anche i carabinieri dei Nuclei Cites e Tutela Patrimonio Culturale che hanno presentato i risultati di Golden Tusk, la più recente operazione italiana, iniziata a gennaio 2020. I circa duecento controlli sulle principali case d’asta, antiquari e gioiellerie del nostro territorio hanno portato in sole 6 settimane al sequestro di 460 pezzi per un valore stimato di circa 400 mila euro.

A livello mondiale il giro d’affari è troppo succulento per essere fermato facilmente. Parliamo di circa 20 miliardi di dollari all’anno di traffico illegale. Una cifra che in realtà comprende anche il traffico di altre specie protette ma l’elefante sale sicuramente sul triste podio dei mammiferi più uccisi al mondo.

LA QUESTIONE È CHE SI TRATTA di un mercato che sembra non conoscere crisi. Anzi, meno elefanti ci sono e più il valore dell’avorio sale. Tanto che secondo gli esperti l’obiettivo dei trafficanti è proprio quello dell’estinzione della specie.

Come racconta Andrea Crosta, direttore dell’agenzia di Intelligence Eli (Earth League International) e creatore di Wildleaks, il sito di delazioni anonime contro i crimini ambientali, «solo in Cina ci sono ancora circa mille tonnellate di avorio illegale che aspettano di essere vendute. Se gli elefanti si dovessero estinguere quella diventerebbe una montagna d’oro».

Lo stesso Crosta è tra i protagonisti del documentario Netflix Ivory game – Caccia all’avorio, prodotto da Leonardo Di Caprio, nel quale, grazie all’aiuto dei servizi segreti, attivisti sotto copertura e polizia di frontiera, viene svelata la rete del traffico internazionale. Dal film si capisce molto chiaramente come, nonostante la tutela normativa posta dalla Convenzione di Washington che disciplina il commercio internazionale di specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione (Cites), la filiera del traffico illegale di avorio sia complessa e gli interessi in gioco siano molti.

Il bracconiere è l’ultima ruota del carro, colui che fa il lavoro sporco per pochi spicci, a seguire ci sono i boss locali, i gruppi legati al terrorismo che acquistano grandi quantità di avorio con cui finanziano l’acquisto di armi (come al Shabaab), chi lo trasporta e chi lo rivende e chi per tutti questi passaggi illegali viene corrotto.

I PAESI DOVE IL BRACCONAGGIO è più praticato sono quelli dell’Africa orientale (Tanzania, Uganda, Kenya) anche se negli ultimi anni c’è stata una forte crescita del fenomeno in Nigeria. Quelli in cui l’avorio viene commercializzato sono soprattutto quelli asiatici, la Cina e Hong Kong in pole position, anche se qui i governi stanno provando a cambiare le cose. Ma anche l’Europa non scherza. Ad oggi l’Ue è considerata il più grande ri-esportatore di avorio al mondo verso Stati extra Ue. Inoltre è cresciuto moltissimo il commercio online.

«Un grosso problema – come spiega Eleonora Panella, responsabile delle Campagne di Ifaw – è che la lobby degli antiquari seppur piccola, è potente e il traffico illegale di avorio non è ancora considerato un vero e proprio reato. Inoltre, è molto complicato mettere d’accordo tutti i 27 Stati membri in un unico Regolamento, una condizione necessaria per creare un muro compatto che impedisca il traffico di avorio senza possibilità di scappatoie».

L’EUROPA VA A RILENTO SULLA LEGISLAZIONE, nonostante le pressioni delle Ong, l’adozione di linee guida per porre fine al traffico di avorio grezzo (2017) la richiesta, da parte di un milione e duecentomila cittadini europei, all’ex Commissario all’ambiente di mettere al bando il commercio di tutti i tipi di avorio (2018), l’inclusione nella Biodiversity Strategy della regolamentazione sul traffico di avorio (2020).

A complicare le cose c’è il diverso trattamento tra l’avorio definito «antico», quello datato prima del 1947, il cui commercio è legale, e quello successivo che invece non lo è. Ma la difficoltà di stabilire l’età esatta degli oggetti in avorio apre la strada ai vari metodi per alterarne l’età e alle false certificazioni. Insomma, ci sono ancora troppi commercianti che utilizzano le loro licenze ufficiali per fare affari illegali. Per fortuna, a fronte di una normativa internazionale insufficiente, negli ultimi anni qualcosa si comincia a muovere su vari fronti.

NEL DICEMBRE 2016, LA CINA ha annunciato il divieto di trasformazione e vendita di avorio e anche Hong Kong, che ha sempre avuto il primato del più importante porto di contrabbando mondiale dell’avorio, ha adottato misure più restrittive. Anche gli Stati Uniti, il Regno Unito e alcuni Stati europei (Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi) si sono organizzati autonomamente, adottando, negli ultimi anni, normative che vietano l’importazione e l’esportazione di avorio grezzo e lavorato. «Ma l’efficacia delle normative ci sarà solamente quanto tutta l’Europa adotterà una normativa in maniera compatta. Questo è l’unico modo per evitare le crepe attraverso le quali il traffico può penetrare, come sta succedendo per il Vietnam che, dopo lo stop di Pechino, sta diventando la più importante destinazione di avorio illegale. Ci auguriamo che anche l’Italia, che tra il 2010 e il 2015 figurava come il secondo ri-esportatore mondiale di avorio, verso la Cina e Hong Kong, dopo la Gran Bretagna, faccia la sua parte. L’auspicio è che il nuovo ministero della transizione ecologica spinga l’Unione europea ad approvare un regolamento stringente che metta tutti d’accordo e che rappresenti un reale ostacolo per i trafficanti di avorio».