Imperversano le notizie-shock sul dilagare della corruzione e ogni giorno ci si domanda quale altro nome eccellente lo tsunami travolgerà. La realtà superando la fantasia, si attendono sorprese. È un déjà vu, il gioco di società che disegna il ritratto più fedele della società italiana ai tempi della nuova modernizzazione. Se al Viminale è stato il capo di un’associazione a delinquere e ai vertici della Guardia di finanza i garanti di un gigantesco sistema di tangenti, non potrebbe darsi che tra i registi di una mega-frode fiscale spuntino un ministro delle Finanze, un giudice della Corte dei conti, un alto dirigente della Ragioneria dello Stato?

Non accadde già ai tempi del generale Giudice o con lo scandalo delle banane del ministro Trabucchi? Si assiste perplessi alla marea provando repulsione, incredulità, indignazione. Dopodiché capita di chiedersi perché. Perché, tra i paesi europei «avanzati», la corruzione abbia eletto domicilio proprio in Italia. E perché con queste dimensioni, questa potenza, questa incoercibile forza di radicamento. La Corte dei conti parla di 60 miliardi l’anno, più o meno dieci volte il costo del miracoloso bonus Irpef. E questo ad appena vent’anni da Mani pulite, quando si pensò che la bufera avesse spazzato via, col personale politico della «prima Repubblica», un’intera genìa di malfattori. La quale invece non ha soltanto continuato imperterrita, ma ha evidentemente figliato, si è moltiplicata e ha pure raffinato le proprie competenze criminose. Insomma perché in Italia la corruzione è sistema? Al punto che il sistema seleziona i corrotti e discrimina gli onesti, mettendoli in condizione di non nuocere con la propria improvvida, anacronistica, antisistemica onestà?

C’è una prima ragione di lungo periodo. Che non è meno vera per non essere una scoperta dell’ultim’ora. La corruzione è un reato contro la collettività, una ferita ai suoi beni materiali e immateriali. Ma si dà il caso che la nostra sia da tempo immemore – già dall’eclissi dell’Impero romano – una società pulviscolare, di privati e di particolari. Nella quale la passione civile non ha messo radici, fatta eccezione per qualche sparuta cerchia intellettuale. Si capisce che qui la corruzione sia tollerata e persino ben vista, anche da chi ha soltanto da perdere non potendo praticarla in prima persona né trarne benefici. Se per un verso (in pubblico) si storce il naso, per l’altro (in privato) si è pronti ad ammirare e magari, potendo, a emulare chi la fa franca e su questa ambigua virtù costruisce fortune. Si faccia quindi attenzione alla dialettica del controllo, che quanto più è severo, tanto più gratifica chi riesca a violarlo. Controllare è indispensabile, ma non ci si illuda: non ci sarà controllo che tenga finché somma virtù sarà la valentia del filibustiere. Ma proprio in una società siffatta la politica è il cuore del problema. Non perché sia necessariamente l’epicentro della corruzione, come si ama ripetere nei salotti buoni e nelle redazioni. Anche se non va di moda dirlo, la corruzione sgorga spesso dalla beneamata società civile: pervade i mondi dell’impresa, del credito e dell’informazione, il privato non meno che il pubblico. Il cuore del problema è la politica perché, tale essendo il costume, dalla politica soltanto – in primis dal legislatore – può muovere il riscatto.

E perché quindi, dove invece la politica non si distingue dal costume e quindi lo asseconda, ne deriva inevitabile un disastro. Il rovesciamento dei valori ne trae vigore e i comportamenti anti-sociali, già legittimati dal sentire comune, ne risultano legalizzati, di nome o di fatto. Anche da questo punto di vista la storia italiana offre un quadro desolante. Si pensi ieri alla Banca Romana, ai governi della malavita, alla corruzione dilagante nel regime fascista, la cui denuncia costò la vita a Matteotti. E si pensi, nella storia della Repubblica, alla folta teoria degli scandali democristiani e socialisti, con al centro il sistema delle partecipazioni statali, le casse di risparmio, la manna dei lavori pubblici. Ciò nonostante, questa storia non è la notte delle vacche nere. In un paesaggio pressoché uniforme c’è stata una felice anomalia. E un pur breve tempo – tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – in cui le cose parvero andare altrimenti. Si può leggere la storia del Pci, nei primi cinquant’anni della sua vita, come quella di una preziosa dissonanza: del vettore di un’etica civile laica e di una cultura politica nuove, per molti versi estranee alle tradizioni di questo paese. Per non dire al suo carattere nazionale. Gramsci lo dice a chiare lettere: il moderno principe è il catalizzatore di una «riforma intellettuale e morale» per l’avvento di una democrazia integrale. E davvero, fino agli anni Settanta, i comunisti italiani perlopiù lo furono, concependo e praticando la politica come impegno volto a far prevalere un’idea. Come una professione in senso weberiano – un «saper fare» fatto di competenza, disinteresse e senso di responsabilità – consacrata alla trasformazione della società. Poi, nel corso degli anni Settanta, le belle bandiere furono ammainate.

In questi giorni ricordiamo l’ultimo grande segretario del Pci scomparso trent’anni or sono. La figura umana e morale di Enrico Berlinguer è nel cuore di noi tutti. Ma non si dice abbastanza forte che durante una prima lunga fase della sua segreteria il partito cambiò volto. Si burocratizzò e divenne il partito degli amministratori, secolarizzandosi nel senso meno nobile del termine. Rimango dell’idea che anche di questo, che per lui fu un dramma, Berlinguer morì. Quando – avvertita la necessità di alzare il tiro contro l’arroganza dei padroni e le discriminazioni di genere, contro l’acquiescenza all’imperialismo americano e, appunto, il dilagare della corruzione – scoprì che la battaglia era da combattersi già dentro il partito, e che nemmeno qui il buon esito era acquisito. Sta di fatto che, morto Berlinguer, il Pci si normalizza e, ancor prima di chiudere i battenti, cessa di essere una contraddizione. Per questo non regge all’implosione della «prima Repubblica» né, tanto meno, si mostra capace di guidare una rinascita. Anzi viene travolto, senza un’apparente ragione. Lasciando che Berlusconi, campione di moralità, si faccia, dopo Tangentopoli, interprete della nuova modernità italiota. Siamo così ai nostri giorni. Chi fa politica oggi in Italia? E perché e come? Nella migliore delle ipotesi – scontate le debite, ininfluenti eccezioni – il politico è un tecnico senza visione. Più spesso, un addetto ai lavori che conosce soprattutto e ha a cuore la rete di relazioni che gli ha permesso di acquisire posizioni e influenza. Un esperto nella pratica del potere che vive tuttavia senza patemi il deperire del ruolo a funzioni esecutive o esornative. Sindaci, presidenti di regione, assessori si barcamenano nei vincoli posti dall’esecutivo, le cui decisioni i parlamentari ratificano. Capi di governo e ministri si attengono alle direttive europee e dei mercati. Sullo sfondo, un sistema di partiti che vivono per riprodursi senza nemmeno più ventilare l’ipotesi di sottoporre a critica questo stato di cose e di modificarlo.

Questo significa essere corrotti? In larga misura sì. E ad ogni modo si capisce che la corruzione si sviluppa molto più facilmente quando la finalità del fare politica è fare politica: restare nel giro, partecipare ai riti del potere, ritirare i dividendi dello status, utilizzare le istituzioni per intrattenere rapporti utili con la società civile. La quale, dal canto suo, ha tutto l’interesse di trovare interlocutori istituzionali comprensivi e disponibili a esaudire i suoi non sempre irreprensibili desiderata. Se è così, non c’è da stupirsi che dopo Tangentopoli le cose non siano cambiate affatto, se non in peggio. Né vi è ragione di confidare – retoriche a parte – in un’autoriforma del sistema o in una spallata rigeneratrice. Non che le masse si identifichino entusiaste con il governo in carica, come pretende la fanfara di giornali e tv. Il 25 maggio e ancora il 9 giugno hanno vinto sopra tutti la disaffezione, l’astensionismo, il vaffa strisciante. Ma contraddizioni serie attraversano il “popolo”. Il risentimento qualunquistico del «così fan tutti» è spesso solo la maschera dell’assuefazione. Il “popolo” per un verso stigmatizza questi comportamenti e invoca la gogna per i corrotti. Per l’altro, è incline a comprendere e a giustificare. A concedere attenuanti alla propria parte (sempre meno corrotta delle altre) e a tacitamente invidiare il corrotto baciato dal successo. Anche per questo il “popolo” rifugge come la peste il politico utopista e visionario, l’ideologo idealista, il cattivo maestro di un tempo che fu. Dio ci scampi. Meglio, molto meglio gli uomini del fare, proprio perché senza idee e un poco mascalzoni.