Quanto conta la copertina per il successo di un libro? La questione è vecchia, e sembrava superata con l’arrivo – ormai più che ventennale – degli e-book, oggetti impalpabili che si sottraggono a una delle esperienze più amate dalle lettrici e dai lettori novecenteschi: il giro in libreria, lo sguardo che si posa sui banconi e viene attratto quasi magneticamente da un titolo, un’immagine, una composizione grafica.

Ma no, la copertina conta ancora, e molto, protesta il critico Donald Clarke su The Irish Times, arrabbiatissimo perché Norton – la casa editrice che pubblica la popolare serie naval-napoleonica di Patrick O’Brian, abitualmente definita «Aubrey e Maturin» dai nomi dei due protagonisti – ha deciso di dare nuova veste grafica ai venti volumi della saga (ventuno, se vogliamo includere anche L’ultimo viaggio di Jack Aubrey, che lo scrittore britannico ha lasciato incompiuto alla sua morte, nel 2000, e che come i precedenti è uscito in Italia per Longanesi).

In effetti la scelta di Norton suona quasi provocatoria per i cultori anglofoni di O’Brian. Dal lontano 1988 l’edizione tascabile della serie avviata con Master and Commander portava sulla copertina «gli splendidi, particolareggiatissimi dipinti» dell’illustratore Geoff Hunt. «Immaginate quindi la mia patetica indignazione – scrive Clarke – quando, dopo quattordici volumi su venti, ho scoperto che il quindicesimo aveva il fotomontaggio di una plancia e di quello che sembra un maniglione metallico». Design assolutamente gradevole, ammette il critico, ma «i romanzi non sono più quello che erano» – e l’auspicio, dichiarato, è che Norton ritorni sui suoi passi così come era avvenuto una quindicina di anni fa, quando la casa editrice aveva tentato un esperimento analogo, fallito molto presto: in quel periodo «la serie è stata ristampata con copertine che ritraevano modelli fotografati come personaggi delle storie. Ci siamo chiamati fuori ed è tornato Geoff».

A sostegno della sua causa Clarke, orgoglioso membro di quella famiglia di lettori che vedono il libro «come un’entità degna di essere apprezzata nel suo complesso, anche se non si va mai oltre il frontespizio», chiama uno dei più noti critici irlandesi, John Self, più che lieto di dargli man forte: «La copertina di un libro va considerata con la stessa attenzione del contenuto. È la prima cosa che si vede, e anche l’ultima: guardarla è il modo più breve per ripensare all’esperienza di lettura del libro – e dunque deve essere appropriata».

La questione va ben oltre la serie di Aubrey e Maturin, e mette in luce le differenze di gusto, le idiosincrasie personali o generazionali: per esempio, nota Clarke, «ci sono molti lettori che – a mio parere, sanamente – si rifiutano di comprare un romanzo quando l’unica versione disponibile è quella che mette in copertina gli attori della trascrizione cinematografica o televisiva». Gli si dà ragione, ma sarà poi vero che «la decisione di Picador di tenere Jack Nicholson sulla copertina di One Flew Over the Cuckoo’s Nest per decenni ha spaventato migliaia di puristi»? Forse è così, ma è altrettanto probabile che per un purista sdegnoso ci siano stati dieci o cento acquirenti attratti proprio dall’immagine dell’attore, non a caso campeggiante anche sulla copertina di Qualcuno volò sul nido del cuculo, edito da Rizzoli.

Eppure è vero, come rileva Self, che solo in casi rarissimi le case discografiche hanno cambiato le copertine dei loro lp: «Su Dark Side of the Moon ci sarà sempre il prisma dello studio Hipgnosis. E ci sarà sempre la banana di Andy Warhol su The Velvet Underground & Nico». E allora perché cambiare le copertine di libri molto amati? La risposta agli editori.