È iniziata ieri a Bruxelles la maratona del Consiglio europeo straordinario dedicato al bilancio della Ue per il periodo 2021-2027, un summit che rischia di tenere svegli i leader europei anche di notte e prolungarsi nel fine settimana. E se non si trova un accordo, un altro Consiglio straordinario potrebbe aver luogo a marzo-aprile, il tempo stringe. Bisogna trovare i finanziamenti per mantenere l’impegno del Green New Deal voluto dalla nuova Commissione presieduta da Ursula von der Leyen e avere delle risorse per le nuove politiche, come la Difesa, mentre c’è contemporaneamente da colmare il «buco» che rappresenta la Brexit, cioè i 75 miliardi che la Gran Bretagna avrebbe versato in sette anni. Cioè concretizzare le nuove ambizioni e al tempo stesso non smantellare le politiche che hanno costruito per decenni la Ue, la Pac e i Fondi di coesione (che assorbono il 65% delle risorse).
All’appuntamento di Bruxelles le posizioni di partenza sono molto distanti. Sul tavolo c’è la proposta del presidente del Consiglio Ue, il belga Charles Michel, che difende un budget di 1095 miliardi, in calo rispetto a quello dei sette anni precedenti, pari all’1,074% del pil dei paesi Ue (prima era 1,16%), abbellito con un aumento dal 20% attuale al 25% per le politiche a favore del clima. Gli schieramenti in campo partono da posizioni molto lontane: la Commissione ha proposto un budget pari all’1,1% del pil, il Parlamento europeo ha votato un bilancio all’1,3% ed è deciso a difendere con i denti la sua posizione «mancano 230 miliardi» ricorda il presidente David Sassoli. Ma i «frugali», cioè i paesi contributori netti non intendono superare l’1%: Austria, Danimarca, Olanda e Svezia non solo non vogliono sentir parlare di un aumento dei contributi, ma difendono i «rebate», cioè la traduzione dell’urschrei di Margaret Thatcher «I want my money back», la restituzione di una parte dei soldi (i paesi che godono del rebate sono la Germania e i 4 frugali). Sul fronte opposto ci sono gli «Amici della coesione», 17 paesi più poveri, le «cicale» che contano anche Italia e Spagna (contributori) accanto a Bulgaria, Cipro, Repubblica ceca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Croazia, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia e Slovacchia. Charles Michel propone di destinare ai paesi poveri i Fondi di coesione che vanno ai paesi ricchi, ma al summit ieri è arrivata una lettera di alcune regioni dei paesi ricchi (Germania, Olanda ecc.), un cavallo di Troia nel fronte dei «frugali» per chiedere di poter continuare a beneficiare dei Fondi di coesione, «per investimenti nella transizione verde, innovazione e crescita». Francia e Germania, che cercano una difficile intesa, sono a metà del guado, a favore delle nuove politiche (più Parigi che Berlino), ma non intendono cedere terreno sui settori consolidati del passato. Charles Michel cerca di trovare un’unità proponendo la flessibilità nella gestione del bilancio, ma questa ipotesi lascia molti perplessi. Lo scontro in corso è anche tra la «vecchia Europa», l’ovest, e la «nuova», l’est, che per le capitali occidentali si è mostrata ingrata (continua a comprare armamenti negli Usa, per esempio). La vecchia Europa deve fare i conti con la rivolta delle classi medie: c’è già stata la Brexit, ci sono i gilet gialli, la Ue diventa il capro espiatorio di questo malessere.
«Sarà un negoziato duro e lungo, ma abbiamo bisogno di un budget moderno» ha detto la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Il primo ministro svedese, Stefan Löfven, ha escluso categoricamente la proposta di Charles Michel, che per Stoccolma significherebbe un aumento dei contributi statali del 44%. Solo il Belgio, che ha un governo di transizione, sembra disposto a dare più soldi. Giuseppe Conte insiste su «maggiori ambizioni» e esclude «piccole risposte» (e rifiuta il ritorno dei rebate). Per lo spagnolo Pedro Sanchez è «inaccettabile» la flessibilità che Charles Michel vorrebbe estendere anche alla «condizionalità» del versamento dei Fondi di coesione ai paesi che non rispettano lo stato di diritto (proposta esplosiva per l’est, Polonia e Ungheria in testa). La Spagna è d’accordo con un’idea francese, che attende ancora una presa di posizione chiara da parte della Germania: invece di basarsi soprattutto sui contributi degli stati, difficili da far passare nelle rispettive opinioni pubbliche, bisogna trovare nuove «risorse proprie» (oggi soprattutto una percentuale dell’Iva). «La chiave del budget non è la somma dei contributi degli stati» afferma Amélie de Montchalin, responsabile degli Affari europei in Francia. C’è l’ipotesi di una tassa sulla plastica non riciclabile, una carbon tax alle frontiere, persino una tassa sulle transizioni finanziarie, tutte risorse che potrebbero andare direttamente nelle casse della Ue. «Nessuna riduzione delle nuove ambizioni – ha detto Emmanuel Macron – né un sacrificio di quelle che per decenni hanno costruito la Ue», a cominciare dalle politiche agricole (la Spagna lo sostiene), che vorrebbe riciclare come «difesa dell’ambiente» per non scatenare la rivolta degli agricoltori, mentre ha già tutti contro con le riforme in corso.