Nella cortina fumogena che volutamente avvolge il fantomatico Jobs act, i primi punti fermi verranno da tutt’altro provvedimento. Sarà la legge di stabilità a definire la prima – e forse più importante – delle partite: quella degli ammortizzatori sociali. Per mettere fine a quella che con sprezzo del ridicolo definisce apartheid, Matteo Renzi dovrà inserire lì le risorse necessarie per allargare l’Aspi ai precari. L’impegno preso è solenne, mantenerlo costerà però non solo economicamente. Già Elsa Fornero promise e non mantenne: i precari ad oggi sono totalmente fuori dalla sua Assicurazione sociale per l’impiego.

Da tempo al ministero del Lavoro si portano avanti simulazioni che fatalmente passeranno le forche caudine della Ragioneria generale: la più accreditata riguarda l’allargamento dell’Aspi ai circa 500mila co.co.pro monocommittenti e costerebbe – ma la stima è assai prudente – almeno un miliardo.

Il problema è sempre lo stesso: dove trovare i soldi? L’idea è quella di dirottare parte dei fondi ora usati per la cassa in deroga. Ma lo strumento inventato da Tremonti per tutelare i lavoratori senza cig ordinaria è già in via di estinzione per volere di Elsa Fornero: se per il 2014 erano stati previsti 700 milioni – diventati poi quasi due miliardi per non lasciare a spasso i lavoratori – nel 2015 a bilancio ce ne sono solo 400, e saranno gli ultimi. Ci sarebbero poi i fondi per mobilità – che nel 2016, è già previsto, sarà sostituita dall’Aspi – e quelli per la cig straordinaria per cessazione – che ormai tutti sono d’accordo ad abolire – ma i conti continuano a non tornare.

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La coperta difatti è cortissima e la decisione su da che parte tirarla verrà presa a brevissimo. Il primo passaggio infatti avverrà fra qualche giorno e comunque prima del 30 settembre: la presentazione dell’aggiornamento del Def – documento di economia e finanza – poi entro il 15 ottobre il governo dovrà presentare alla commissione europea la sua manovra. Fra spending review, tagli, recupero dell’evasione, l’indecisione regna sovrana a via Venti settembre, come confermano le ultime dichiarazioni del ministro Padoan (nella foto), che come unica certezza ha dato «la difficoltà del quadro strutturale in cui ci muoviamo».

Per questo è stata buttata in pasto ai media una nuova arma di distrazione di massa: si chiama Tfr. Il governo ha deciso di ripetere l’operazione 80 euro dando seguito a un vecchio cavallo di battaglia di Maurizio Landini: spostare il trattamento di fine rapporto – anomalia italiana – direttamente in busta paga. La versione scelta – nell’anticipazione del Sole24ore poi confermata da tutti tranne i sottosegretari al Mef – è quella di dare facoltà al lavoratore di scegliere di accaparrarsi subito il 50 per cento del Tfr che mensilmente invece viene messo da parte, pari al 6,91 per cento della retribuzione. Un flusso di 25 miliardi che – nelle intenzioni del governo – rilancerebbe i consumi, fermi nonostante lo shock degli 80 euro.

Ma l’uovo di colombo per arricchire magicamente le scarse retribuzioni dei lavoratori ha molte controindicazioni. La prima è che proprio con i soldi del Tfr si è costruita la previdenza complementare: ogni categoria di lavoratori ha il suo fondo – Cometa per i metalmeccanici – che investe i Tfr dei lavoratori per creare guadagni che corroborino poi i magri assegni pensionistici. Ancora più negativo sarebbe l’effetto per le piccole imprese (fino a 50 dipendenti il Tfr si tiene in azienda se il lavoratore decide di non versarlo al fondo integrativo) che perderebbero l’unica liquidità rimastagli. Anche in questo caso poi dal provvedimento sarebbero esclusi i 3 milioni di lavoratori pubblici: per molti di loro il Tfr è già un sogno averlo tutto in un’unica soluzione visto che il governo gliel’ha già rateizzato. Ultimo ma non meno importante tema è quello della tassazione: il Tfr in busta paga avrebbe fatalmente una tassazione più elevata rispetto a quella che si ha prendendolo in un’unica tranche a fine rapporto di lavoro.

Sul tema Susanna Camusso ha messo subito le mani avanti, sentendo forte la puzza di bruciato: «Sul Tfr in busta paga nessuno dica che è un aumento di stipendio dato ai lavoratori», ha detto dal salotto di Porta a Porta. «Non si può fare un’operazione che va a toccare la seconda gamba della previdenza», ammonisce il segretario generale Cgil, che aggiunge: «Non vorrei che per questo non si rivedessero i contratti». A pensar male – con le intenzioni del governo Renzi verso i lavoratori – non si fa mai peccato.