Pochi giorni fa a Bruxelles, con un discorso di Donald Tusk, i capi di Stato e di governo del Consiglio europeo hanno dato avvio ufficiale alla Pesco, la cooperazione strutturata e permanente per la difesa e la sicurezza in ambito Ue. II Concludendo così un 2017 denso di novità nell’integrazione europea nel campo militare e di difesa, con un’accelerazione mai vista nei decenni precedenti e favorita da una congiuntura particolare (dalla Brexit alla situazione dei flussi migratori). Con tanto di positivi giudizi anche da parte italiana e dell’Alto Commissario Federica Mogherini.

UN PASSO «STORICO» su un tema considerato un «tabù» dai veti incrociati fortissimi. Ma che ora vive balzi in avanti fortissimi e incontrollabili, da parte della Commissione e perfino del Parlamento europeo che ha votato una risoluzione che aprirebbe la strada alla costituzione di una Direzione Generale per la Difesa (con possibile creazione di un Commissario, cioè un Ministro a livello Ue, ad hoc).

Il problema è che tutto questo sta succedendo senza una riflessione condivisa e sulla spinta di un generico desiderio di rafforzamento internazionale dell’Ue (passante da una maggiore autonomia militare) e degli appetiti dell’industria a produzione militare. Il processo in corso infatti non sta portando ad una razionalizzazione delle strutture e dei costi degli eserciti nazionali degli Stati membri (che potrebbe far piacere anche agli stessi movimenti disarmisti, in quanto i possibili risparmi nelle spese militari continentali potrebbero andare dai 25 ai 100 miliardi di euro annui, secondo diverse stime) ma mette davanti considerazioni di pura logica militare – o peggio di produzione di armi – a ogni idea di rafforzamento positivo dell’Ue. Che invece dovrebbe partire da un comune concetto di politica estera e di difesa dei popoli e delle vite dei cittadini prima che occuparsi di sviluppo di armamenti.

«LE QUESTIONI IN GIOCO sono troppo importanti per lasciarle ad un piccolo gruppo di esperti della difesa legati all’industria, con i politici che ne seguono a ruota le indicazioni – ha commentato Laetitia Sedou, Program Officer a Bruxelles della rete Enaat (European Network Against Arms Trade) di cui per l’Italia fa parte Rete Disarmo – Si continua però a rimandare il vero dibattito politico e di prospettiva che dovrebbe stare al fondamento della questione, forse per arrivare ad una situazione in cui le decisioni saranno già state prese con poca trasparenza e partecipazione da parte dei cittadini europei».

SE INFATTI LA PESCO, e con essa una qualsiasi versione «forte» di una politica estera comune, è solo un’idea appena lanciata e ancora abbastanza informe già da tempo è partito nei fatti un progetto di supporto allo sviluppo di nuove armi prodotte dalle industrie belliche europee. Di cosa stiamo parlando? Si è partiti con una «Azione preparatoria» (Ap) che ha funzionato da percorso pilota per un successivo programma di ricerca e sviluppo definito European Defence Research Programme (Edrp). Al momento l’Ap ha un primo finanziamento di 90 milioni di euro su 3 anni (dal 2017 al 2019) mentre il programma definitivo comporterà almeno 500 milioni di euro del Budget Ue all’anno (3,5 miliardi complessivi per il ciclo 2021-2027), come prima e preponderante fase – dedicata alla ricerca – del Fondo europeo per la difesa (Edf) lanciato a metà 2017. La seconda fase di tale azione sarà invece dedicata (sotto il cosiddetto European Defence Industrial Development Programme – Edidp) allo sviluppo di prototipi e ai testi di fattibilità, come parte di «capacità operativa» dell’Edp, focalizzando sulle priorità di possibili strutture militari comuni.

UN ESEMPIO? Il futuro drone comune europeo (che verrebbe poi armato dagli Stati membri). La Commissione ha in mente di dedicare 500 milioni di euro all’anno all’Edrp per il 2019-2020 andando poi ad aumentare tale cifra ad 1 miliardo all’anno dal 2021 in poi, chiedendo anche agli stati membri di accrescere tali cifre (togliendole dai patti di stabilità Eu) fino a un fattore moltiplicativo di 4. Avendo quindi come risultato finale fondi per 2 miliardi all’anno fino al 2020 e 4 miliardi all’anno dal 2021 in poi. Un approccio che non è sensato nemmeno da una prospettiva militare perché inverte i fattori: come possiamo sapere quali tipi di armamenti serviranno alle strutture della Pesco se non sappiamo ancora i dettagli del sistema che verrà implementato? Non è nemmeno garantito l’utilizzo di questi prototipi da parte degli esercizi nazionali, usualmente fautori di un sostegno delle industrie domestiche.

RISULTATO? Sovvenzioni «a perdere» per le aziende (che andranno a sommarsi, non a sottrarsi, a quelle nazionali) e grossa spinta all’export in particolare in aree di conflitto: una volta sviluppati i nuovi sistemi d’arma dovranno naturalmente cercare mercati esterni per realizzare guadagni. Bram Vranken, ricercatore dell’organizzazione belga Vredesactie facente parte di Enaat ha commentato: «La pace non ha bisogno di nuove armi, ma piuttosto che l’Ue sostenga percorsi sostenibili di risoluzione dei conflitti. Le risorse a disposizione sono troppo limitate per pretendere di realizzare al meglio entrambe le cose: in questo modo la sola presenza di un fondo europeo per le armi porterà come conseguenza una maggiore insicurezza, andando a rafforzare la corsa globale agli armamenti».

Eppure fino ad oggi il dibattito pubblico è stato molto limitato e influenzato dalla visione dell’industria degli armamenti (che aveva la maggioranza nel Gruppo consultivo di esperti che ha consigliato l’inizio del percorso) che intende beneficiare dei fondi.

AL CONTRARIO LE VOCI del movimento per la pace sono state ignorate, come quelle dei cittadini preoccupati che proposte di questa natura comporteranno solo maggiore profitto per l’industria militare aggravando la problematica situazione internazionale. Con una petizione internazionale n 142mila si sono detti contrari all’uso militare dei fondi europei, ma la Commissione Ue non ha risposto. Forse perché le sirene dell’industria militare sono più convincenti?