Come accade in ogni guerra che si rispetti, l’informazione è una merce o un bene spesso da saccheggiare; o materiale da ricondurre ai lidi controllati della propaganda. L’assalto armato contro i territori siriani controllati dai curdi da parte dello stato turco rischia, oltre che cancellare un esperimento di autogoverno e convivenza democratica come quello del Rojava, vede sì Mark Zuckeberg indossare la mimetica dell’esercito turco, ma sta accelerando o più semplicemente legittimando un processo di definizione delle regole di ingaggio e funzionamento di un complesso militare -digitale rispetto la libertà di informazione, la raccolta dei dati individuali, il monitoraggio dei comportamenti on line, la diffusione di tecnologie del controllo attraverso la Rete.

Uno degli effetti della guerra contro i curdi è certo la ridefinizione dell’intera policy di Facebook sulla comunicazione on line, ma quel che sta accadendo in Rete e nella produzione di informazione è un processo interno a un mutamento nel funzionamento del capitalismo delle piattaforme.

Quel che sta mutando sono cioè i rapporti tra globale e locale, tra economico e politico, che fa emergere il camaleontico adeguamento delle imprese della Silicon Valley e della Rete ai voleri di questo o quel potere nazionale nel volere controllare flussi di dati e esercitare un potere di veto sui Big Data raccolti. Tutto ha avuto inizio con la chiusura temporanea di pagine Facebook che hanno espresso solidarietà con la resistenza dei curdi alle azioni dell’esercito turco. Le motivazioni del social network sono presto riassunte. Le pagine incriminate, questa la «colpa», esprimevano posizioni di una organizzazione – il Pkk – ritenuta terrorista; inoltre spesso denigrano un capo di stato – in questo caso il premier turco Erdogan – o hanno alimentato odio razziale religioso. Insomma, la solidarietà ai curdi era politicamente da censurare.

Fin qui, nulla di nuovo sotto il cielo. Mark Zuckerberg ha sempre amministrato con oculatezza la discrezionalità nel consentire la libera espressione o meno attorno a temi controversi. Massima libertà quando non ci sono nubi all’orizzonte, intervento restrittivo se le regole auree del political correct sono messe a dura prova. Tutto all’insegna di un rapporto asimmetrico di fiducia tra utente e piattaforme digitali imposto da un modello di business in base al quale il singolo cede la proprietà dei suoi dati personali – e dunque dei contenuti che esprime e «produce»- in cambio di servizi gratuiti.

Un modello di successo tutto a favore di Facebook, fino al punto che Mark Zuckerberg ha più volte annunciato progetti e software adeguati per la costituzione di comunità globali della comunicazione che potevano scindersi in tante, plurali, e proliferanti comunità di simili, a patto che però che gli utenti restassero fedele e stabilmente connessi, generando così incassi e profitti.

Il sovrano, va da sé, doveva rimanere il social network: cioè una impresa globale che si sottraeva a qualsiasi controllo da parte di stati sovrani o organizzazioni internazionali «pubbliche». Facebook funzionava cioè come un soggetto politico transnazionale. Un giocattolo che macinava e macina montagne di profitti che rischia di rompersi definitamente dopo l’affaire Cambridge Analytica. Una vicenda che ha messo in evidenza il fatto che il social network si era prestato ed era stato protagonista di manipolazioni non solo della comunicazione, ma della dialettica politica e democratica. Da cultore della libera comunicazione, Facebook si è cioè trovata sbattuta sul banco degli imputati come un sordido manipolatore dell’opinione pubblica. Da qui a sua supremazia rispetto la legge è stata messa in discussione, tanto negli Stati Uniti che fuori.

In patria, non sono poche le voci che ormai chiedono che il social network venga smembrato per porre fine a un potere monopolitistico. La candidata alla presidenza per i democrtici Elizabeth Warren lo chiede espressamente, allarmando non poco lo stesso Zuckerberg. Fuori dagli Usa, Facebook se la deve ormai vedere con stati nazionali che pretendono di contrattare con il social network le forme di business, chiedendo inoltre di poter esercitare un controllo su come sono gestiti i dati raccolti. Insomma, gli stati nazionali vogliono essere soggetti alla pari nel complesso militare-digitale che in passato vedeva invece le imprese globali fare la parte del leone. Quel che i monopoli del capitalismo delle piattaforme favoriscono, più che l’eclissi dello stato nazione è un riequilibrio tra economico e politico, assegnando a quest’ultimo un ruolo di codeterminanzione delle logiche economiche produttive dominanti. È una sorta di sovranismo digitale quello che bussa con forza alle porte del capitalismo contemporaneo dopo essere stato messo tra parantesi durante gli anni d’oro della retorica delle comunità globali cosmopolite della comunicazione.

È questo ciò che implicitamente si muove dietro l’oscuramento temporaneo di pagine Facebook dall’inizio delle ostilità militari di Erdogan contro i curdi.

Un cambiamento di prospettiva che non vede certo alzare le barricate da parte di Zuckerberg, che anzi accelera la ridefinizione della sua politicy in direzione proprio del cambiamento del vento globale che sta spazzando via gli equilibri del capitalismo delle piattaforme (e della sorveglianza) fin qui consolidati. D’altronde per Facebook questa è la strada da imboccare se non vuole essere spezzettata come chiedono a destra e a sinistra del sistema politica. E come chiedono ormai movimenti sociali e mediattivisti per mettere un freno al suo potere globale.