Barbara Hammer, pioniera del cinema lesbico, è scomparsa il 16 marzo a New York all’età di 80 anni al termine di una fertilissima carriera che continuerà a ispirare chi intende il cinema come risorsa per pensare e vedere criticamente il mondo. In un’intervista dichiarò: «Essere lesbiche è un esperimento continuo, allora perché non creare una forma espressiva sperimentale capace di esprimere questo modo di essere?». Tutta la sua ricerca si è applicata, sin dai primi anni 70, alla creazione di un linguaggio cinematografico fatto di assemblaggi visivi e sonori volti a rovesciare le rappresentazioni inquietanti, ridicole, moraliste del lesbismo per crearne di nuove, ironiche, sexy, affettuose: «Nei miei film volevo che le donne fossero soggetti attivi in modo da impedire che venissero percepite in modo voyeuristico».

SIN DA «DYKETACTICS» (1974), in cui il sesso tra donne viene mostrato esplicitamente, Hammer si dedica a una ricerca sulle percezioni e sui sensi in cui il tatto riveste un posto di primo piano, anche attraverso un lavoro artigianale di manipolazione, pittura, impressione della pellicola. Dalla fine degli anni 80, in modo analogo alle ricerche condotte in ambito maschile da Guy Hocquenghem, Lionel Soukaz o Vito Russo, trovò nei Lesbian Herstory Archives una miniera infinita di materiali. Nitrate Kisses (1992) ne è il primo esempio: un mosaico storico-poetico di film di finzione, vecchi documentari detournati, immagini di vita contemporanea a cui si alternano sequenze del primo film gay statunitense, Lot in Sodom (1933) di Watson e Webber.

Anche History Lessons (2000) è un film d’archivio sull’immagine delle lesbiche prima di Stonewall in cui Hammer monta in forma quasi situazionista film militari, porno d’antan, melodrammi lesbici vintage e scene inventate dalla stessa autrice incorniciando il tutto con alcune sequenze del discorso di apertura di Eleanor Roosevelt a una conferenza di donne, in cui la parola «donne» è sostituta da Hammer con «lesbica» con esiti sovversivi che svelano quanto le rappresentazioni convenzionali celavano. L’aveva fatto anche Roussopoulos in Lip V (1976) dove a un certo punto l’operaia Monique Piton, per rivelare le scioccanti dinamiche di dominio degli uomini sulle donne in fabbrica, raccontava la quotidianità sostituendo la parola «donne» con la parola «arabi» e «uomini» con «bianchi».

IN HAMMER, la herstory, cioè la controstoria femminista e lesbica, è quasi sempre raccontata con ironia, benché non manchino atti di denuncia dal tono più grave o serio. Lo dimostra tutta la serie sulla resistenza, da Resisting Paradise (2003) sul rapporto tra arte e politica in tempi di guerra a Love Other The Story of Claude Cahun and Marcel Moore (2006). Quest’ultimo lavoro, omaggio alle due artiste surrealiste che sull’Isola di Jersey utilizzarono l’irrisione e il sabotaggio come forme di opposizione attiva all’occupazione nazista, si inserisce in un progetto di valorizzazione di artiste lesbiche troppo spesso emarginate dagli annali ufficiali.

Altro esempio di ciò è Female Closet (1998) sulle pratiche di silenziamento operate dalle grandi istituzioni dell’arte riguardo alla sessualità di figure come la fotografa Alice Austen, la dadaista Hannah Höch o la pittrice Nicole Eisenman. Con Maya Deren’s Sink (2011), Hammer rende un tributo a colei che fu la prima e unica cineasta donna che Hammer trovò citata durante gli studi di cinema a San Francisco.

SULLA POETA Elizabeth Bishop si concentra invece Welcome to this House (2015) dove le case in cui la scrittrice visse negli Stati Uniti, in Canada e in Brasile diventano luoghi di memoria in grado di raccontare delle storie, di far risuonare i componimenti di Bishop e di situare in uno spazio concreto e intimo testimonianze di amanti, amici, studiose. Hammer invitava chiunque guardasse i suoi film a costruirsi un auto-archivio di oggetti, lettere, fotografie con cui poter un giorno raccontare da sé la propria storia.

Lei stessa lo fece nel suo eccentrico film autobiografico Tender Fictions (1995) in cui l’autorappresentazione (assolutamente inattendibile) si mescola a citazioni che hanno inciso sul suo percorso di formazione e a immagini popolari con cui si è trovata a fare i conti, come quella di Shirley Temple, a cui la madre voleva che assomigliasse quand’era bambina. Recentemente, Barbara Hammer aveva saputo trasformare anche la propria malattia in materia di riflessione estetico-formale. In A Horse is not a Metaphor (2008), i dettagli visivi registrati durante le sedute di chemioterapia si trasfigurano in geometrie di luci e ombre, in viaggi attraverso paesaggi sereni e luoghi evocativi come il ranch di Georgia O’Keefe in New Mexico. L’ospedale si dissolve in spazi di sublime bellezza non come strategia di negazione ma per esprimere forza a chiunque desiderasse far proprie quelle immagini.