Modena, 6 marzo 2016. Voce pacata e roca da fumatore incallito, Simon Njami (Losanna 1962, vive a Parigi) accompagna la visita alla mostra Santu Mofokeng. A Silent Solitude (fino all’8 maggio), da lui curata al Foro Boario di Modena. Le sue informazioni sono preziose, frutto anche di una lunga amicizia che lo lega a Santu Mofokeng (Johannesburg 1956), assente per motivi di salute, fin dal suo primo viaggio in Sudafrica nel 1994. La mostra rappresenta una parte del riconoscimento (l’altra è in denaro: 70mila euro) al fotografo sudafricano, vincitore della I edizione del Premio Internazionale per la Fotografia 2016 sul tema dell’identità, istituito da Fondazione Fotografia e Sky Arte, in partnership con UniCredit. La rosa di finalisti, che includeva Claudia Andujar, Rineke Dijkstra, Jim Goldberg, Yasumasa Morimura e Zanele Muholi, è stata scelta dalla giuria internazionale composta da Filippo Maggia (direttore di Fondazione Fotografia Modena), Christine Frisinghelli, Shinji Kohmoto, Simon Njami e Thyago Nogueira.

Un premio che non è solo un riconoscimento di per sé,” – afferma il curatore camerunense – “ma un segnale che si manda alla società.” Del lavoro di Mofokeng, che inizia la carriera nel 1981 come tecnico di camera oscura, unendosi nel 1985 al collettivo Afrapix attivo testimone dell’apartheid, vengono ripercorse le tappe più significative – “la mostra è una sorta di diario personale in cui, attraverso le immagini, si vede il suo interesse per la politica, poi ci si sposta verso la spiritualità e i paesaggi”: da Townships (1982-97) e Train Church (1986) a Chasing shadows (1996-2008), fino alla serie a colori Poisoned Landscapes (2010-2011). Fotografie come parole, per raccontare storie che appartengono alla collettività attraverso il filtro del vissuto personale, anche collezionando fotografie anonime confluite nel progetto The Black Photo Album: 1890-1950. Njami parla delle varie identità di Santu, sempre coerente e libero dai condizionamenti della fotografia commerciale. “C’è una certa onestà – benché questa parola sia complessa – in lui, perché non cerca di parlare per gli altri ma per se stesso.” Anche quando il tema è legato alla spiritualità animista di Sangoma si inserisce un frammento di storia personale: avviene nel 2004, quando accompagna suo fratello Ishmael, sieropositivo, a Motouleng Cave, nel suo viaggio disperato di cure alternative alla medicina. Con apparente distacco ne racconta la fatica, la stanchezza, la speranza, la rassegnazione.

Nella sezione dei paesaggi il trittico Robben Island (2002) mostra un muro sempre congiunto ad un altro. La tensione è quasi impercettibile nell’immobilità e questo muro, apparentemente innocuo, in realtà reca le tracce “inquinate” di storie passate. Oltre c’era la libertà a cui anelavano i tantissimi prigionieri che, fino al 1991, sono stati reclusi tra le mura della prigione di Robben Island. Oggi il luogo, patrimonio dell’Unesco, è meta di pellegrinaggi perché custodisce anche la storia di Nelson Mandela che qui ha trascorso 18 dei suoi 27 anni di prigionia.

Santu Mofokeng, vincitore di questa I edizione del Premio Internazionale per la Fotografia è sudafricano e di colore, come lo è Zanele Muholi tra i finalisti. Un riconoscimento significativo che è anche emblematico nella visualizzazione dei cambiamenti della società sudafricana. Mofokeng lotta contro l’apartheid, Muholi per l’affermazione dei diritti delle comunità LGBT. Pensi che la fotografia, o meglio la fotografia sociale, abbia un ruolo decisivo, rispetto alle altre arti visive, nel rendere visibili realtà complesse e dolorose, quindi partecipando attivamente al processo di costruzione della storia individuale e collettiva?

E’ ovvio che la fotografia abbia un ruolo decisivo nei cambiamenti della società. Ma chiamiamo pure queste persone nere e non di colore, soprattutto se ci riferiamo al Sudafrica dove “di colore” è una definizione di genere perché ci sono “bianchi di colore” e “neri”. Se guardiamo alla società sudafricana nella storia, le prime persone che hanno mostrato quello che stava succedendo lì sono stati i fotografi. All’epoca si chiamavano Freedom fighters (combattenti per la libertà) ed erano trattati malissimo dal regime dell’apartheid, perché testimoni delle cose sbagliate che stavano succedendo. C’è stato un fotografo che una volta ha detto che senza le immagini non c’è storia. Nel mondo, anche se oggi abbiamo veramente troppe immagini, sappiamo quanto siano importanti. Un bambino trovato morto su una spiaggia diventa il manifesto della situazioni dei migranti, molto più di quanto non possano essere le parole dei politici, perché coinvolge direttamente la gente. Il potere della fotografia sta nel mostrare le cose, educando molto più dei discorsi teorici perché dà sempre l’illusione della realtà. In Sudafrica, in particolare, la fotografia ha giocato un ruolo decisivo, è stata un elemento chiave per sconfiggere l’apartheid. In un contesto come quello di questo premio, in cui era in relazione all’identità, era logico che ci fossero due sudafricani, di cui uno è vincitore e l’altra finalista, perché la questione dell’identità è cruciale per ognuno di noi. Il termine identità è molteplice e polisemico, ma acquisisce un significato diverso soprattutto quando ci riferiamo all’Africa in generale, dove la gente è stata deprivata della propria identità per un tempo abbastanza lungo, e al Sudafrica in particolare dove non aveva alcuna voce. Ricordo di essere andato in Sudafrica dopo che Mandela era stato liberato, lui disse – sia ai bianchi che ai neri – che c’era stato un momento in cui era chiaro chi fosse il nemico, da una parte e dall’altra, ma a quel punto era tutto da ridefinire. Non c’era più l’apartheid, bisognava ripensare e rimodellare il tipo di Sudafrica che si andava costruendo. Ma nel fare la storia bisognava tenere presente, come ci insegna Walter Benjamin, che la storia è scritta soltanto dai vincitori. In questo caso la fotografia è una storta di counterhistory (una storia che va contro un’altra storia), perché è scritta dai perdenti. Per raccontare una storia differente è necessario che ci siano testimoni, perché lo facciano da un diverso punto di vista. Un esempio è nel lavoro di ricerca di Santu Mofokeng iniziata quando un giorno trovò una fotografia che mostrava neri nel XIX secolo che non avevano ossa nel naso o eseguivano una danza tribale. Erano persone dignitose, vestite normalmente. Santu mi disse che non aveva mai visto immagini del genere nei libri. Da lì è cominciata la sua ricerca che si chiama The Black Photo Album: 1890-1950. La fotografia è stata il punto di partenza per un lavoro di ricerca sull’identità, cercando di identificare i nomi delle persone, dove avevano vissuto, quello che facevano. Ecco perché la fotografia gioca un ruolo primario all’interno di questo processo, perché è testimone, traccia, evidenza.

Quando in occidente si parla di Africa si tende a generalizzare ricorrendo ad una visione irreale (e stereotipata) che non considera le profonde differenze etniche, linguistiche e culturali tra le varie aree del continente, che potrebbero del resto rappresentare anche ostacoli alla libera circolazione del pensiero e della creatività. Fare emergere questi aspetti è stato uno degli obiettivi della Revue Noire, di cui sei stato co-fondatore con Jean Loup Pivin e Pascal Martin Saint Léon. Come è cambiato lo scenario dagli anni ’90 ad oggi?

Non lo so. Come è cambiato, per esempio, lo scenario italiano (lo dice in italiano, tornando subito dopo all’inglese). E’ facile avere preconcetti per le persone che non viaggiano mai. Penso che la gente nutra da sé i preconcetti. Non si tratta degli altri, ma della conferma di uno status. Per qualcuno che vive in un paese più ricco è più facile pensare che l’Africa sia povera, come lo è pensare che in Africa non si viva nella democrazia. Uno dei motivi per cui abbiamo fondato la Revue Noire è stato proprio perché c’erano molti preconcetti sull’arte contemporanea africana. Così abbiamo cominciato a lavorare, un po’ come Santu, mostrando quello che la gente non aveva mai visto e facendo sì che ciò facesse riflettere. Ricordo che quando uscì la rivista fui invitato ad una conferenza in Germania e sedevo accanto a Jan Hoet, che poi è stato direttore artistico di Documenta IX a Kassel. Lui diceva di esser stato in Africa, ma che non c’era niente di arte contemporanea. Ero molto giovane e duro, lo feci parlare e poi gli diedi il primo numero della rivista. Tre mesi dopo Jan mi chiamò e mi chiese l’indirizzo di tre artisti che invitò alla manifestazione. Penso – ma del resto è evidente – che qualsiasi preconcetto si basi sull’ignoranza, ovunque si tratta di una sorta di comfort zone.

In qualità di direttore artistico della 12^ edizione della biennale d’arte africana di Dakar – Dak’Art (3 maggio-2 giugno 2016) hai scelto come punto di partenza una poesia di Léopold Sédar Senghor, alla cui figura hai scritto un saggio nel 2006. Quali sono gli obiettivi da raggiungere, quali le difficoltà?

Ah! (sorride). Prima di tutto il tema della biennale è un poema che Senghor ha scritto negli anni ’40. E’ una sorta di visione. Un “sogno utile” di come sarebbe diventata l’Africa dopo gli anni Sessanta. Il titolo della rassegna è La cité dans le jour bleu (la città nella luce blu del giorno), un’utopica proiezione di una città in cui sono tutti fratelli, amici e tutti lavorano insieme per il progresso, eccetera. Ma abbiamo visto quello che è successo negli anni ’60. Progresso? Uhm, non ne sono sicuro. I fratelli hanno ucciso i fratelli, come in Burkina Faso. I paesi sono stati scissi come in Costa d’Avorio, non troppo lontano dal Senegal. In Angola gli americani e i russi si sono sparati usando la gente per uccidersi tra loro. La mostra principale si chiama Reenchantment (reincanto), perché questa parola contiene il significato di disincanto, ma anche di meraviglia che può essere prodotta solo dall’arte, ovvero da qualcosa direttamente connesso con i sensi. Vorrei organizzare anche un simposio basato sulla Conferenza di Bandung, che ebbe luogo in Indonesia del 1955, dei paesi non allineati africani e asiatici che avevano dichiarato di non voler seguire né i sovietici né l’occidente. Uso questo “non allineamento” per cercare un equivalente nell’arte che non debba dipendere da Basilea, Londra o Miami, oppure da Sotheby’s o dalle fiere, ma che possa essere sostenibile. Una tematica “ecologica”, che possa non essere inquinata dal denaro o dalla dittatura del mercato dell’arte. Ecco perché ho invitato curatori dal Brasile, dall’India, dalla Corea. La principale difficoltà, però, è stata spiegare ai senegalesi che Dak’Art non è solo un evento che appartiene al Senegal, ma che bisogna asciare spazio anche agli altri. La manifestazione è nata con determinate regole, a cui vado contro, cercando di cambiarle.

Parlando della tua identità personale, sei nato a Losanna, i tuoi genitori sono camerunensi, vivi a Parigi…

Tre luoghi geografici diversi, ma la stessa persona. Penso che ognuno di noi abbia in sé diversi strati. Per qualcuno è più ovvio che per altri. Bisogna interrogarsi sulla propria identità. Il problema della comfort zone è che ci depriva dal porci domande: si rischia di pensare che la realtà del mondo è quella del luogo in cui ci si trova. Se sei un bambino nero camerunense nato a Losanna, fin dal primo momento capisci che il mondo è molto più grande di quello che sembra e sei consapevole del significato di nazione, verità e di superiorità di qualcosa su qualcos’altro. Si suppone, ad esempio, che la Svizzera sia un paese più ricco di altri, ad esempio della Francia e del Camerun, ma anche lì ci sono i poveri e i problemi. Ma, certamente, ti permette di avere la giusta distanza per non essere stupido, come Marine Le Pen che crede che l’essere nata e cresciuta in Francia, e avere capelli biondi finti, dia una sorta di cittadinanza diversa dagli altri.