Negli Stati Uniti il romanzo di Agata Christie Dieci piccoli indiani circolava con il titolo E poi, non rimase nessuno. È sufficiente un piccolo restyling di quel titolo – e poi, non rimase niente – per farsi un’idea dell’autentica sostanza dello schema di decreto legislativo in tema di ordinamento penitenziario approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto.

SI TRATTA DI UN GUSCIO VUOTO che non conserva nulla dell’originario assetto della riforma – colpevolmente abbandonata dal Partito Democratico in ragione di calcoli elettorali e di scarso coraggio politico – e che, all’esito di un processo di vera e propria sterilizzazione del lavoro delle commissioni, lascia sul campo un inutile sbruffo di cipria sul sistema della pena del nostro Paese. Un ritocco che neppure può ambire al nome di aggiornamento normativo, ma che, tuttavia, porta impressa la cifra politica più giustizialista e inquietante di questa maggioranza politica.

Scompaiono, rispetto al decreto approvato il 16 marzo 2018 dal governo Gentiloni, le norme che favorivano l’accesso alle misure alternative di comunità e che investivano su un’esecuzione penale alternativa al carcere in grado di prevenire con efficacia – gli studi più approfonditi stanno lì a dimostrarlo – il fenomeno della recidiva. Di pari passo, lo smantellamento della riforma implica anche l’eliminazione di tutte quelle disposizioni che ridimensionavano gli automatismi preclusivi e che avrebbero consentito alla magistratura di sorveglianza di tornare a valutare caso per caso i progressi effettivi di ogni detenuto.

LE STESSE FORZE POLITICHE che hanno spesso usato l’indipendenza della magistratura come vessillo della battaglia contro l’illegalità, ora, investite da responsabilità di governo, preferiscono giudici con le mani legate e una giurisdizione spogliata del trasparente esercizio della discrezionalità. Conosciamo già il refrain che saluterà il decreto legislativo, celebrativo della vittoria della certezza della pena e della sicurezza dei cittadini. È un ritornello vecchio e fasullo.

OLTRE A QUANTO APPENA DETTO a proposito di un’esecuzione penale che continuerà a rimanere legata ad automatismi e a preclusioni contraddittorie – basti dire che il decreto neppure si sforza di adeguare l’ordinamento alle importanti sentenze della Corte costituzionale del 2018 –, si deve rilevare che nel nuovo impianto legislativo rimangono, con tutt’altro valore rispetto al contesto nel quale erano nate, norme procedurali che gravano le spalle dei magistrati di sorveglianza di incombenze burocratiche e impediscono di guardare in faccia e conoscere il condannato al quale dovrà essere applicata o meno la misura. L’esatto contrario del giudice di prossimità e di una giurisdizione informata, dunque. E l’esatto contrario di ciò che dovrebbe auspicare chi agita la bandiera della sicurezza.

Ma c’è qualcosa di ancor più sgradevole nel processo di riscrittura della riforma, che scaturisce in parallelo con il clima di ostilità costruito attorno ai capri espiatori dei mali di questo Paese: gli stranieri e i soggetti deboli.

Mentre apprendiamo dal recente rapporto di Antigone che la detenzione degli stranieri in Italia è diminuita di oltre due volte negli ultimi dieci anni, il governo fa marcia indietro anche sulle reali possibilità di integrazione e risocializzazione dei detenuti stranieri, eliminando ogni riferimento alla possibilità di quest’ultimi di ottenere il permesso a fini di lavoro nel corso delle misure alternative.

UNA LACUNA che non ha giustificazioni, se non di natura discriminatoria. Del resto, la rimozione di ogni richiamo alle dimore sociali – vale a dire quei domicili dove i non abbienti, ritenuti meritevoli dalla magistratura, possono fruire di misure alternative invece di continuare a languire in carcere – costituisce il segno evidente di una giustizia che si stringe ancora una volta attorno a chi è ai margini del perimetro sociale e trascura le criminalità più strutturate, a partire da quella organizzata. In conclusione, siamo di fronte a un provvedimento inutile per un verso, dannoso per l’altro.
Chiaro, almeno, sulla reale natura della maggioranza politica.

*Magistratura democratica