Tra i fatti accaduti al Torino Film Festival di quest’anno, la Menzione speciale ai personaggi di N-Capace di Eleonora Danco, è tra quelli più sorprendenti. Una luce di speranza per tutte quelle persone che fino a ieri gratuitamente venivano pedinate, spiate, spogliate e rivestite, costrette a esibire le loro esistenze private, in certi casi anche a riprodurle e ad aggiustarle, nel caso il regista si fosse assentato per cercare soldi o, più umanamente, si fosse abbioccato dopo tanta realtà. Al di là dell’umorismo che una scelta del genere può provocare, ancora una volta è da rimarcare quanto la divisione dei generi cinematografici non funzioni più. Sono le storie e il senso che esse producono a dettare una forma, a richiedere l’uso di più linguaggi. Spostando l’attenzione dal concorso «maggiore», dove N-capace era collocato, a quello internazionale dei documentari, troviamo una serie di titoli che dimostrano quanto le stesse sezioni di un festival siano un espediente un po’ usurato per dividere la programmazione in comitati di selezione, orari e sale. Se non fosse che solo in certe sezioni i selezionatori si prendono la libertà di intraprendere percorsi alternativi.

Il gruppo diretto da Davide Oberto quest’anno ha spinto lo spettatore a riflettere sulla dimensione temporale, scegliendo film distopici, con protagonista un’umanità che fatica a risalire il sentiero che porta al presente. Le due opere premiate Endless Escape, Eternal Return di Harutyun Khachatryane e Snakeskin di Daniel Hui, ne sono un ottimo esempio, così come l’ottimo The Iron Ministry di J.P. Sniadecki, forse il film più distopico di tutta la selezione.

La nostra attenzione, però, è caduta su Branco sai preto fica del brasiliano Adirley Queirós. Un documentario? Un’opera sperimentale? Un film di fantascienza? Nella necessità di ricomporre le vicende di due uomini, Marquim e Shockito, mutilati e traditi da un sistema politico e sociale, il regista ha lavorato su molteplici piani narrativi. La storia, se ne volessimo ricavare una sinossi per un catalogo, sarebbe di quelle elementari: due ragazzi di Brasilia frequentano assiduamente una discoteca; un giorno la polizia irrompe nel locale e con la scusa di dare la caccia a degli spacciatori, pesta a sangue in modo mirato quelli con la pelle nera. Marquim sarà costretto sulla sedia a rotelle, a Shockito amputeranno una gamba. Una doppia vicenda dolorosa che mette insieme la vita quotidiana di due uomini (piena di dignità e di interesse), il razzismo, la violenza della polizia e la musica. Ingredienti che uniti a materiali di repertorio e alle doverose interviste ai protagonisti, agli amici e ai familiari, darebbero vita a un documentario definito dagli esperti tradizionale, o forse, con meno rispetto, noioso e già visto.

L’abilità, che in questo caso non significa astuzia e opportunismo, di Queirós, qui al suo primo lungometraggio, sta invece nell’aver giocato liberamente con le diverse possibilità narrative, puntando a realizzare non un film di controinformazione ma di controimmaginazione. Perché quello che viene negato agli spettatori, con l’avallo ormai di molti festival e istituzioni culturali, non sono le storie difficili, quelle degli emarginati, dei più deboli, ma i linguaggi che producono sensi incontrollabili.
Nel film di Queirós, che rispetta i fatti per come sono accaduti, viene inserito un personaggio misterioso, un agente che da futuro piomba nel nostro presente per fare luce su quanto accaduto, per rendere giustizia a chi ha subito la violenza di stato. E ne viene fuori un racconto spiazzante nel quale oltre alla vicenda specifica, si riflette sul senso del tempo, sulla percezione del passato e del futuro, ossia su come ricostruire la nostra vita. E nella visione ci sentiamo continuamente lacerati tra ciò che sembra simile alla nostra esperienza e ciò che appare come un’imprevista anomalia.