Tre dicembre 2013, il giorno della partenza. Austria, Ungheria, Bosnia Erzegovina, Croazia, Serbia, Montenegro, Albania, Italia, Marocco, Mauritania, Senegal, Guinea Bissau, Guinea, Sierra Leone, le tappe di un lungo e rapsodico itinerario. Liberia 22 aprile 2014 la fine improvvisa del viaggio. Quel giorno il regista Michael Glawogger muore di malaria. Il progetto di realizzare un film infinito, attraversando il mondo e le umanità che lo popolano, si scontra con l’inaggirabile finitezza dell’uomo.

Il tempo, però, continua a scorrere e le opere, talvolta, si abbandonano nelle mani di altri autori e, inevitabilmente, si consegnano ad altre intenzioni. Così, le immagini girate in poco più di un anno e il diario di viaggio (nella versione italiana distribuita da ZaLab, letto da Nada) diventano l’ultimo film di Glawogger portato a termine dalla sua montatrice, Monika Willi (nota anche per le numerose collaborazioni con Michael Haneke).
Untitled – Viaggio senza fine è dunque solo in parte un’opera postuma, composta da continui sguardi e da riflessioni provocate da quell’osservare il mondo e il suo continuo mutare attraverso donne, uomini, bambini, animali, piante, oggetti.

Tutto appare e immediatamente scompare alla nostra vista di spettatori, quasi che il film pretenda di essere il mondo stesso. E invece la vita e la distruzione continuano pure dopo lo spegnimento della videocamera. Lo sapeva anche Glawogger che nel suo diario scriveva: «La morte della libertà è prevedere ogni possibilità di disastro, pianificare la vita di conseguenza è non considerare le cose belle che potrebbero succedere se semplicemente si ignorassero queste restrizioni».

Untitled perciò non vuole essere una «restrizione», un modo di costringere il mondo dentro un mascherino. Al contrario è una visione che apre al possibile, a ragazzi che lottano, a un uomo sdraiato, a un asino che dorme, a una donna che attraversa le rovine prodotte da un terremoto, a un incendio che divampa. Vita e morte, movimenti e soste.
Quello che Untitled non prevede è il respiro delle singole storie, la capacità degli individui di istituire, con il loro essere, un universo. Il mondo accoglie e ospita, si lascia attraversare, è comunque condizione dell’apparire. E proprio quell’apparire sembra cristallizzato. Forse è solo mancato il tempo al regista austriaco, travolto dalla fragilità dell’esistere.