Come molti sanno, il ’68 non comincia nel ’68: in Italia le occupazioni delle università iniziano nell’autunno del 1967, negli Stati Uniti il movimento dei neri e quello contro la guerra del Vietnam sono in pieno svolgimento, solo per citare i dati di fatto più eclatanti.

Questo va ricordato senza nulla togliere alla straordinaria unicità di un momento storico che vide in Italia e nel mondo l’esplosione di quei movimenti studenteschi che segnarono un’epoca e che in Italia, più che in altri paesi, fecero da detonatore ad altri movimenti nella società. Tanto che tra gli storici discutiamo da decenni se si può parlare di un «lungo ’68».

Anche se si guarda al cinema italiano, il ’68 era cominciato prima, e, da un certo punto di vista aveva prodotto i suoi frutti migliori. Così come molti loro colleghi in tutto il mondo, non c’è dubbio che molti cineasti italiani furono pionieri nel dare voce a un turbamento e a un’ansia di cambiamento nel periodo precedente l’«anno degli studenti».

Pensiamo al profetico, anche solo nel titolo, Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, a I pugni in tasca e La Cina è vicina di Marco Bellocchio o a I sovversivi di Paolo e Vittorio Taviani (in cui Lucio Dalla di fronte alla bara di Togliatti dice «era ora»).

L’insofferenza era comune a quella generazione a livello planetario ma in Italia traeva origine anche dalle trasformazioni del «miracolo economico», uno sviluppo senza guida che aveva cambiato il Paese, con la società dei consumi e il «benessere».

Veniva dalla delusione per gli esiti della coalizione di centrosinistra che, dopo una lunga gestazione iniziata nel 1956, non era stata capace di intervenire né sui «dualismi» e sulle ingiustizie, prodotti o accentuati dal boom, né di colmare il divario tra una società in trasformazione e il suo impianto politico, culturale e morale che affondava le sue radici in un’Italia rurale.

Mentre «gruppetti» e riviste cercavano di ripensare il marxismo, anche la sinistra «storica» era stata spiazzata da questa mutazione e nel Pci si discuteva sull’Italia (un «capitalismo straccione» o un «neocapitalismo»?) e, di conseguenza, sulla strategia da adottare (la tradizionale unità delle sinistre o una nuova alleanza anticapitalista?).

Nel ’68 tutto quanto il cinema italiano, i pionieri della rivolta giovanile e gli altri, tutti coloro che si consideravano di sinistra furono investiti e, anche spiazzati dall’ondata che pure avevano contribuito a ingrossare. Improvvisamente il loro modo di fare cinema e di essere «impegnati» sembrava essere invecchiato, insufficiente; ritornava l’idea di rivoluzione e da parte di un soggetto che non era quello di cui parlavano le teorie marxiste: i giovani (ma anche gli operai – com’è noto – sarebbero scesi in campo di lì a poco).

L’intera «Sinistra cinematografica» fu portata a ripensare la sua agenda politica oltre che il proprio ruolo nella società contemporanea. Messi in discussione nelle assemblee, i registi affrontarono in modo diverso quella stagione: chi restò sulle proprie posizioni e quelli invece, i più, che si gettarono nella mischia, magari aderendo anche ai gruppi più dogmatici, in un’ansia di purificazione. La contestazione investì i luoghi della cultura e, tra questi, anche quelli del cinema come il Festival di Venezia o quello del Nuovo cinema di Pesaro.

 

Lou Castel ne I pugni in tasca di Marco Bellocchio, 1965

 

Le opere più sperimentali furono portate ad esempio, fu il momento d’oro di chi aveva invitato Bergman o Fellini a leggere Mao e aggredito Pasolini perché guardava ai contadini e ai sottoproletari invece che agli operai.

Le critiche dei «giovani», e dei gruppi politici in cui si organizzarono, furono anche di segno opposto: nei mesi e negli anni successivi molti sostennero che i film dovevano essere comprensibili per le «masse popolari», riproponendo in modo provinciale un tipico dilemma delle società e dei movimenti rivoluzionari: bisognava fare arte per le masse o elevare le masse a un’arte più «difficile»? Molti registi e intellettuali si sentirono fra due fuochi, insomma.

Ma non c’è dubbio che tutti, i pionieri, gli entusiasti e i critici, furono segnati dal ’68 e così le loro opere. Pensiamo a film come: Partner, Dillinger è morto, Sotto il segno dello scorpione, Zabriskie point, I dannati della terra, Queimada, ecc.

Allo stesso tempo il ’68 irruppe anche nei film di genere come, ad esempio, nel western all’italiana in cui le rivoluzioni del Messico diventarono una metafora dell’Italia.

Non mancarono riflessioni critiche in medias res sulle ipocrisie dell’«impegno» degli intellettuali come in Lettera aperta a un giornale della sera, di Citto Maselli o sulle ideologie di quella stagione come in La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri.

Al termine del «lungo ’68», fu Federico Fellini, con Prova d’orchestra, a riflettere sugli esiti imprevisti di quella stagione.