Alla fine delle sfilate maschili a Milano per le collezioni dell’estate del 2016, poche cose accomunano la diversità di proposte di una moda sempre più orientata a raccontare le molte sfaccettature che compongono la società attuale. La prima è che la moda non prevede e non tollera più l’immagine e la personalità dell’uomo arrogante. La seconda è che la moda sogna e disegna una società dell’inclusione attraverso la contaminazione di riferimenti e culture diverse. La terza riguarda l’innovazione, che non è più intesa soltanto come l’applicazione tecnologica a tessuti e lavorazioni ma al linguaggio dell’abito.

Poche volte, forse, la moda maschile ha inviato dei messaggi così forti. Per essere chiari, la moda italiana rifiuta il rinchiudersi in difesa, l’aggressività, il non pensiero, la scorrettezza del linguaggio, l’ignoranza storica, la candeggina culturale, il razzismo e la cialtroneria della società che vorrebbe imporre Matteo Salvini. Ma si allontana anche dalla semplificazione del linguaggio e dall’arroganza decisionista di Matteo Renzi, dalla paura di prendere posizione di Angelino Alfano e dalla prevaricazione dei forti sui deboli che affligge la società mondiale contemporanea. Il che spinge una veterana dalla protesta come Vivienne Westwood a chiamare i politici «criminali» perché «sono causa di tutti i mali che affliggono il mondo, compresi quelli climatici», dice l’ex regina del punk.

Ma se quelle della Westwood sono delle dichiarazioni che poi si fa fatica a ritrovare nei vestiti, molti altri evidenziano bene la proposta di una società più giusta, più egualitaria e più attenta ai diritti dei singoli. Lo si vede, per esempio, nelle collezioni di Stefano Pilati per Zegna e di Giorgio Armani, che con le loro giacche e pantaloni rilassati parlano di un uomo pacificato con se stesso. Questo fa dire al decano degli stilisti italiani in attività che «l’uomo che sceglie la mia moda preferisce la bicicletta al Suv», auto simbolo di chi calpesta strade, marciapiedi e codice della strada. Anche Miuccia Prada parte dalla condanna dell’arroganza e parla di Post Modest per raccontare la modestia (gentilezza d’animo) dell’uomo che indossa i suoi abiti, arrivando al Post Industrial e al Post Pop per descrivere il rifiuto di un esistente logorato dalla prevalenza della realtà virtuale su quella reale. Dove, per molti, esistono molte disparità. Non ultima quella tra uomini e donne, che è alla base di tutte le altre.

Da qui la reazione con una moda che sappia mescolare i generi attraverso abiti che esprimono una presa di posizione sulla propria identità. Come fa Alessandro Michele per Gucci regalando a uomini e donne le stesse camicie di pizzo e le stesse gorgiere che sottolineano un punto di vista spiazzante per chi ancora crede all’abito come rappresentazione di un ruolo e non di una personalità.

Il contrario di questa moda pensierosa e riflessiva è rimasta in quei creativi che, come Philippe Plein, credono nella visione di un uomo tutta forza, ormoni e aggressività. Ma non è un caso che chiunque abbia riferito della sua sfilata si sia fermato alla grandiosità e allo sfarzo dell’allestimento, molto più simile alle tematiche di uno show televisivo (Plein era uno dei giudici di Forte Forte Forte, il programma flop di Raffaella Carrà) che a una moda che vuole descrivere la società, i suoi problemi e anche la sua (residua) bellezza.

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