Nessuna sorpresa. La sentenza di ieri dei giudici della Corte costituzionale tedesca è quella che tutti si aspettavano: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), nato il 2 febbraio 2012, è conforme alla Legge fondamentale della Germania. E cioè: l’utilizzo del denaro pubblico tedesco da parte dell’organismo finanziario europeo non viola il diritto democratico dei cittadini a decidere, attraverso il parlamento, come spendere i soldi dello stato.

Sollevata dall’associazione Mehr Demokratie («Più democrazia»), la questione di fronte alle toghe di Karlsruhe era: può utilizzare enormi quantità di soldi pubblici (fino a 700 miliardi di euro, di cui 190 versati dalla Germania e 125 dall’Italia) un organismo non eletto da nessuno, che «pare concepito – afferma Luciano Gallino nel suo ultimo libro – dal dottor Frankenstein tornato in carriera con un master in businnes administration»? I giudici hanno risposto sì. Con alcuni «se e ma»: condizioni che permettono ai ricorrenti di festeggiare una mezza vittoria.

Un esempio dei paletti fissati dai giudici riguarda l’obbligo di «non rivelare le informazioni protette dal segreto professionale» in capo ai membri del consiglio di amministrazione del Mes, previsto dall’articolo 34 del trattato che lo istituisce. Mutatis mutandis, è come se i membri della commissione bilancio di un parlamento dovessero tacere sulle scelte che compiono sulle leggi finanziarie: il contrario della democrazia. Per la Corte tedesca quel dovere del silenzio ammette una rilevante eccezione: quando a chiedere informazioni siano i rappresentanti del popolo, in questo caso il Bundestag.

«Speriamo che i nostri deputati sappiano utilizzare i diritti che sono stati loro riconosciuti», dicono i portavoce di Mehr Demokratie, organizzazione impegnata da anni nella lotta contro la degenerazione tecnocratica dell’Unione europea. Il ricorso alla Corte è una possibilità che l’ordinamento tedesco – a differenza del nostro – offre a cittadini e associazioni, e quelli di Mehr Demokratie ne hanno fatto abbondante uso. Insieme a loro, a Karlsruhe c’erano anche la Linke e singoli esponenti del campo conservatore, come l’indomito Peter Gauweiler, vicesegretario della bavarese Csu e figura-simbolo dell’euroscetticismo teutonico.

A spingere l’esponente democristiano a chiamare in causa i giudici costituzionali, in realtà, è stata una preoccupazione di segno diverso: che soldi dei contribuenti tedeschi vadano a rimpinguare le casse degli scialacquatori e scansafatiche dell’Europa meridionale. Per giunta, mettendo il denaro a disposizione di un ente piuttosto misterioso, come oggettivamente è il Mes. Una posizione, quella di Gauweiler, che sottovaluta il ruolo strategico che simili organismi possono avere proprio nel rafforzare l’egemonia tedesca nella governance economica continentale: i Paesi che ricevono denaro in prestito dal Mes (sinora Spagna e Cipro) sono obbligati alle famigerate «controprestazioni» in termini di «riforme», tanto care alla cancelliera Angela Merkel. E guarda caso, a guidare il Mes è un tedesco, Klaus Regling.

Per l’esecutivo di grosse Koalition, quella di ieri è una buona notizia: nessuna bocciatura delle decisioni di Berlino (e Bruxelles) degli ultimi anni. La Corte si era mostrata meno compiacente verso la «gestione della crisi» da parte di Merkel e delle istituzioni Ue nell’ordinanza di febbraio sul programma di acquisto sul mercato secondario di titoli del debito dei Paesi «in difficoltà» da parte della Banca centrale europea. Nome «in codice»: Omt, sigla inglese per «operazioni monetarie definitive». In quella pronuncia, però, i giudici di Karslruhe decisero di non decidere, mettendo il tutto nelle mani della Corte di giustizia Ue. Che difficilmente metterà i bastoni fra le ruote al governatore Bce Mario Draghi, considerato negli ambienti comunitari – a torto o a ragione – il «salvatore dell’euro».