Per ironia della sorte il Maggio Fiorentino recupera un’opera protervamente grandiosa proprio nel momento di interregno seguito a una tempestosa manovra di avvicendamento fra sovrintendenti. Qualche riflessione sulle relazioni fra arte, spettacolo e potere politico si attaglia bene alla prima ripresa moderna del Fernand Cortez di Spontini, nella versione in francese creata a Parigi nel 1809 per Napoleone.

Progetto che nasce dall’impulso dell’ex-sovrintendente Chiarot, pensato in primis per la bacchetta di Fabio Luisi, sostituito dopo l’abbandono da Jean-Luc Tingaud, che si è destreggiato per vincere le sfide poste dal rapporto fra orchestra e palcoscenico, mettendo in luce anche le pagine di gusto cameristico celate nel dinamismo delle colossali, complesse e ineguali strutture della partitura spontiniana.
Forse è il destino del Cortez, da sempre in bilico fra successo, inattualità e avversione, nodo seminale della forma operistica di primo Ottocento, da un lato ispirazione del futuro grand opera francese, dall’altro segmento della linea ardente che da Gluck muove verso Berlioz e Wagner (che lo ammirava).

IL LIBRETTO di De Jouy e Esmenard presenta Cortes come il civilizzatore occidentale che libera terre e popolo messicano dalla teocrazia sanguinaria dei sacerdoti del dio del male: programma propagandistico pensato per la sfortunata campagna di Spagna, in cui Napoleone è Cortez e gli spietati aztechi sono i Borboni-Spagna. Lo sfumare dell’utilità propagandistica aveva portato al ritiro dell’opera e al rimaneggiamento del 1817, interi blocchi musicali spostati all’interno dei tre atti, ritrovati a Firenze nell’originale sequenza e completezza, grazie all’edizione critica di Federico Agostinelli per la Fondazione Spontini.

La regista Cecilia Ligorio e il suo team snelliscono la fastosa macchina drammaturgica e scenica originale, letta con il necessario taglio retrospettivo: resta l’impresa visionaria di Cortes – un sicuro e partecipe Dario Schmunck – e dei suoi, fra cui il baldanzoso Morales di Gianluca Margheri: è quest’ultimo a narrarci in flashback la conquista, gli episodi militari sempre in nero fra luccicare di metalli: tutti in armatura, soldati e cavalli del primo atto (non vivi come nella celebre scena del 1809 ), nere le navi in fiamme e le giganti carte nautiche, a marcare significato politico e dimensioni epiche della conquista.

MA SIN DAL PRIMO l’incontro con le colorate genti messicane, con Amazily, la volitiva Alexia Voulgaridou, l’eroico fratello Télasco ( il pugnace Luca Lombardo), lo spettacolo rivela anche la minaccia di sterminio di un popolo inerme. La scena del tempio del terzo atto, in cui il gran sacerdote (l’imponente André Courville ) tenta di sacrificare Amazily è anche l’ultima occasione di vendetta di una nazione morente. Le ottime danze finali, con la Compagnia Nuovo Balletto di Toscana, ricapitolano l’opera in una celebrazione di concordia che si cambia nelle memorie di oppressione coloniale, maschile e di sangue. In scena fino al 23 ottobre.