«Aveva già visto tutto, capito tutto, inventato tutto» scrisse Céline a proposito di Pierre Mac Orlan (1882-1970), il cui vero nome era Pierre Dumarchey, versatile figura di bohémien, scrittore, pittore, chansonnier (suoi testi vennero interpretati da Juliette Gréco e Germaine Montéro) e reporter che si è misurato con i generi più compositi, producendo un’opera smisurata, raccolta in 25 volumi e apprezzata da intellettuali del calibro di Malraux e Queneau.
Mac Orlan è universalmente conosciuto per aver composto nel 1927 il romanzo Il porto delle nebbie che ispirerà a Carné e Prévert il film eponimo interpretato da Jean Gabin, Michèle Morgan e Michel Simon, ambientato a Le Havre anziché a Montmartre: da qui l’equivoco del titolo che nell’originale suona Le quai des brumes. Nel libro si descrivono le vicende di alcuni avventori di un locale, ispirato al leggendario Lapin Agile, che perderanno la vita in circostanze più o meno tragiche, con l’eccezione di Nelly, una prostituta che riesce nell’intento di adattarsi alle grame circostanze dell’epoca. La miseria descritta in questo romanzo è la stessa patita dall’autore, come precisa Jean-Paul Crespelle in La vita quotidiana a Montmartre ai tempi di Picasso: «Mac Orlan che passò al Bateau-Lavoir solo un inverno non aveva nessun mobile e nessun utensile: niente! Aveva avuto in omaggio da un giornale qualche pacco di copie invendute e le aveva trasformate in un letto». Lo scrittore aveva sposato nel 1912 Marguerite Luc, detta Margot, figliastra di Frédéric Gérard, il gestore del Lapin Agile, immortalata da Picasso nel celebre La femme à la corneille.
Il senso avventuroso dell’esistenza teorizzato nel curioso trattato Le petit manuel du parfait aventurier (1920) si configura come una sorta di àncora di salvezza per chi, come Mac Orlan, confessa di essere «diventato scrittore perché ero un buono a nulla» (ma in gioventù aveva lavorato come illustratore). In questo testo, richiestogli da Cendrars per le edizioni La Sirène, l’autore suddivide la categoria degli avventurieri in attivi e passivi, idealmente iscrivendosi, al pari di Stevenson e Schwob, in quella meno compromessa con i pericoli derivanti da un eccessivo vitalismo: «Un avventuriero passivo si manterrà tale solo nutrendosi copiosamente della feconda sostanza contenuta nei libri». Da ricordare anche la mitizzazione della Legione straniera, a cui verrà dedicato un approfondito saggio, troppo sbilanciato sul versante didascalico, proposto da Medusa nel 2019, nonché il romanzo La bandera (1931).
Esce ora, sempre per i tipi di Medusa, Scritti sulla fotografia (pp. 128, € 15,00), che raccoglie una serie di articoli inediti in italiano, ben tradotti da Claudina Fumagalli, in cui Mac Orlan, fotografo dilettante, si misura da buon esegeta con l’opera di artisti dell’obiettivo come Atget, Kertész, Cartier-Bresson, Willy Ronis. Nell’esauriente prefazione Simone Paliaga asserisce: «La fotografia fa emergere aspetti che l’occhio nudo non sarebbe in grado di cogliere e ne potenzia i tratti». Il contrario di ciò che sosteneva Baudelaire, nonostante la consolidata amicizia con Nadar e Carjat, riguardo a una fotografia concepita come strumento di osservazione oggettiva della natura. Fedele alla rappresentazione del «fantastico sociale» – sua «insegna e orifiamma», nella definizione di Ceronetti –, Mac Orlan» intuisce la straordinaria modernità di questo mezzo espressivo, tornando a più riprese intorno ai medesimi concetti relativi a una disciplina intesa come «arte espressionista della nostra epoca», paragonabile alla canzone (parlerà, appunto, di «canzone fotografica»), nonché di un genere letterario a sé stante: «La fotografia appartiene più all’arte letteraria che all’arte pittorica». Asserirà, con una singolare visuale di ordine sincretistico che sembra prefigurare il panopticon contemporaneo: «Assistiamo alla riabilitazione di tutte le parole che terminano in grafo: fotografo, cinematografo, fonografo».
Parlando di Atget, «poeta dei crocicchi di Parigi», Mac Orlan indica che «la sua figura era inconfondibile, un po’ curva, con il suo apparecchio fotografico e il treppiede, tra la fruttivendola, l’impagliatore di sedie e il capraio con il flauto di Pan». Altrove fa il panegirico della fotografia in ambito pubblicitario e ricorda che per l’obiettivo «la luce è solo un mezzo per frugare nell’ombra, per rivelarne (…) i pericoli, le larve che la popolano e che sono i residui e i veleni della nostra combustione intellettuale».
Gli articoli si cadenzano intorno a qualche folgorante istantanea sia degli autori presi in considerazione sia dello stesso Mac Orlan. Si sente forse la mancanza di un’immagine realizzata da Willy Ronis nel libro fotografico Belleville-Ménilmontant (1954), atta ad accompagnare la nota, qui proposta, dello scrittore, ricca di toni particolarmente ispirati che rinviano al concetto di «autenticità». Mac Orlan disquisisce intorno alla rêverie del bianco e nero avvalendosi di un ristretto numero di beniamini (oltre ai nomi citati ricordiamo Man Ray, Berenice Abbott, László Moholy-Nagy, Germaine Krull, Claude Cahun, Robert Doisneau), arrivando alla conclusione che «la conoscenza fotografica del mondo è crudele».